Genova Walter, sul palco della Festa nazionale del Pd di Genova, sta presentando il suo libro Noi in compagnia del direttore della Stampa Mario Calabresi, e quando incappa nella domanda sul potere catartico della scrittura rispetto alla scelta di gettare la spugna e di dimettersi, ha un incipit evangelico. Quasi un distillato di veltronismo allo stato puro: «Mi sono dimesso e me ne sono andato senza sbattere porte, senza insultare nessuno, senza rilasciare interviste aggressive. Ho detto che non volevo fare agli altri quello che è stato fatto a me. E ho tenuto fede alla mia parola».
Verissimo, almeno fino all’intervento politico che è l’intermezzo che insaporisce la presentazione ultrasoft di Noi. Le parole più forti di Veltroni, di fatto, non nascono da una domanda di Calabresi, ma evidentemente Walter ce le aveva proprio in canna, pronto a spararle.
Evidentemente, parla di Massimo D’Alema e di Pierluigi Bersani, ma senza mai nominarli. Retrocedendoli dialetticamente ad entità che non meritano nemmeno una perifrasi di quelle usate per non citare mai il nome di Berlusconi in campagna elettorale, nessun immaginifico «il leader dello schieramento politico che appoggia un candidato diverso da me alle primarie del Pd».
Quindi niente nomi, ma identikit precisissimi: «Anche da questo palco, nei giorni scorsi, la storia è stata rifatta un po’ brutalmente». E già qui il cerchio dei papabili destinatari dell’attacco si restringe agli ospiti della Festa del Pd. Ma, nel caso qualcuno non avesse capito che si parla proprio di Max e dei suoi, Walter circoscrive ulteriormente il quadro: «Di fronte a questa brutalità nelle ricostruzioni, se volessi usare brutalità, potrei farlo, ma voglio sottrarmi a quest’opera di devastazione. Però non posso non dire che, alle elezioni, avevamo avuto il 33,7 per cento, la percentuale più alta mai avuta da un partito riformista in Italia».
I sassolini dalle scarpe, un po’ alla volta diventano macigni: «Mi è stato addebitato di tutto, anche la sconfitta in Abruzzo. Ma ci si dimentica di dire che le vicende giudiziarie che hanno causato quella sconfitta coinvolgevano amministratori che non erano stati scelti certo da me».
A questo punto, è un crescendo. Walter parte dai discorsi con cui D’Alema (e Bersani) hanno demolito l’idea del partito a vocazione maggioritaria, per riproporre una grande coalizione che vada dalla sinistra radicale all’Udc: «So che usare altre parole da questo palco fa scattare applausi più facili, ma io credo che non si possa non avere la vocazione maggioritaria, altrimenti non è più il Pd. Se vogliono fare un’altra cosa, bisognerebbe avere il coraggio di chiamarlo con un altro nome».
E qui l’endiadi «buonismo veltroniano», luogo comune di tanta pubblicistica eternamente uguale a se stessa e non troppo fantasiosa su Walter, si trasforma in cattivismo allo stato puro. L’obiettivo, ormai non c’è nemmeno più bisogno di precisarlo: è sempre Massimo. L’ex leader del Pd si ribella a quella che ritiene la caricatura di se stesso, a chi vuole farlo passare per «cretino»: «Chi è quel cretino che pensa all’autosufficienza del Pd? Solo un cretino può pensarlo. Ma non si può immaginare uno schema di centrosinistra se non c’è al centro un grande partito riformista perno di un’alleanza sulla base di un programma autenticamente riformista. Un piccolo partito che cerca di mettere insieme il frastagliato arcipelago del centrosinistra non è il Pd».
Alla faccia della scrittura catartica, ad essere catartica questa sera è la parola. Walter è un fiume in piena che travolge ogni dalemismo. Ovviamente, nei limiti in cui Walter può essere un fiume in piena: «Noi partivamo da quasi il 34 per cento... Guardate in Grecia dove Papandreu vince le elezioni dopo aver perso per due volte consecutive, in Spagna, in Gran Bretagna. Bisogna essere capaci di aspettare. Se avessimo avuto pazienza, quel risultato poteva essere la base su cui lavorare. Ma purtroppo, da noi, c’è sempre stata una sorta di gara a divorare».
Resta l’ultima amarezza, quella per chi lo ferma per strada e gli fa «le condoglianze in vita».
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