Da Torino
Nel titolo originale dell'ultimo romanzo di Jonathan Lethem, The Blot, ci sono i riferimenti più importanti della trama: il «blot» è un pezzo del backgammon e il protagonista, Alexander Bruno, è un professionista dell'azzardo. «Blot» è anche la macchia, quella che si manifesta nell'occhio di Bruno e che significa tumore. Ma che - secondo l'autore di La fortezza della solitudine e I giardini dei dissidenti - significa anche la zona cieca, ovvero «le cose che stanno al centro, che abbiamo proprio davanti e non vediamo». Nell'edizione de La nave di Teseo il romanzo si chiama Anatomia di un giocatore d'azzardo (pagg. 438, euro 20, traduzione di A. Silvestri) e la storia di Bruno è arrivata al Salone grazie alla partnership con la Milanesiana, che presenta Lethem oggi alle 15,30 e il 23 maggio a Milano.
Alexander Bruno è un giramondo, che si arricchisce alla spalle dei polli: se lo incontrassimo fuori dal romanzo, lo riconosceremmo?
«Da un lato no, perché è un uomo comune, emblema di una vita superficiale. È nato quando mi sono reso conto che le donne parlano sempre dell'arrivo di quell'età in cui non sono più definite dallo sguardo di un uomo e diventano invisibili. Un cambiamento spaventoso ma anche liberatorio. Per un uomo è anche più imbarazzante: la mezza età, quando l'orizzonte della mortalità si avvicina, porta così tante umiliazioni e compromessi».
Un romanzo sulla vulnerabilità maschile.
«Sì, ma dall'altro lato Bruno è anche una figura magica, carismatica, che ha sempre avuto tutto facile. Questo gli ha permesso di evitare gli esami di coscienza che l'uomo comune fa spesso. L'autore è molto crudele con lui: nel romanzo gli arriva il conto da pagare, tutto insieme».
Questo per lo spirito di Bruno. Il corpo invece, come in un romanzo a chiave, lo ha rubato allo scrittore Geoff Dyer.
«Geoff è un amico e insieme una fascinazione per me. Siamo stati al Salone del Libro di Singapore e l'ho osservato con calma: un mix di vanità e autoironia, portamento elegante e innocenza, molto alto, si fa notare. È il tipo che volevo per Bruno».
Anche lei gioca d'azzardo: poker o roulette?
«La roulette è per veri giocatori: essere umiliati, perdere tutto. Io voglio esercitare la mia volontà, gioco a poker».
Vincite favolose?
«Al massimo per invitare a cena tutti i perdenti della serata».
Giocatori indimenticabili?
«Il mio prof di matematica delle superiori. Mi ha insegnato a scommettere sui cavalli: riceveva telefonate segrete dalla mafia con informazioni sulle corse e correvamo a piazzare».
Funzionava?
«Sempre».
Ha mantenuto i contatti?
«Certo. Ma non mi rivela più niente».
Molte esperienze del libro le appartengono. Anche la malattia?
«Mia madre morì quando ero adolescente. Aveva un tumore al cervello, diverso da quello di Bruno, ma che ha inaugurato la mia fascinazione per la chirurgia e la neurologia. Anch'io ero spesso in ospedale da ragazzo: così ho imparato la passività del paziente. E anche se da adulto sono sano, quella sottomissione è rimasta sempre con me».
E le virtù telepatiche di Bruno?
«Sono l'aspetto più misterioso e inconciliabile del romanzo. Non riesco io stesso a farne l'anatomia. E può anche darsi che Bruno, che vive le emozioni altrui come intrusioni nelle proprie, le interpreti come extrasensoriali ma che siano solo prove di empatia».
Il suo prossimo romanzo?
«Sarà ambientato nella California meridionale e comincerà nell'esatto momento in cui Trump viene eletto. Protagoniste le comunità che fanno la scelta off the grid, ovvero la disconnessione da ogni forma di elettronica per andare in un deserto di isolamento. Una piccola ma importante tradizione della vita americana a cui sono sensibile da tempo perché i miei genitori erano hippie».
È
ancora tempo di sognare il Grande Romanzo Americano?«Oh, no, quella porta si è chiusa per sempre. L'America non è un tutto unico e basta. Io sarei già soddisfatto di scrivere il Grande Romanzo di Una Singola Strada».
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