Verhoeven: «Nella mia Olanda anche i partigiani torturavano»

Il regista di «Basic Instinct» in Italia per il lancio di «Black Book» da venerdì nelle sale

Verhoeven: «Nella mia Olanda    anche i partigiani torturavano»

Nelle anteprime mondane oggi Roma viene sfidata da Milano, dove arriva oggi il regista Paul Verhoeven (pronuncia: Ferùfen) - quello di Basic Instinct - per presentare all’Apollo il suo Black Book («Libro nero»), con la protagonista, Carice Van Houten. È una serata a inviti promossa dall’assessore al Tempo libero e allo Sport del Comune, dal console dei Paesi Bassi e dalla Dnc, distributrice del film (che il pubblico vedrà da venerdì), un film candidato dall’Olanda all’Oscar, ma soprattutto insolito, perché reinterpreta il «passato che non passa» grazie a un regista con le carte in regola per farlo: prima d'andare a Hollywood, nella sua Olanda, Verhoeven aveva infatti firmato documentari e film come Ritratto di Mussert (1967), sul capo del governo durante l'occupazione tedesca, e Soldato d’Orange (1977), con Rutger Hauer. Opere notevoli per qualità e ancor più per angolazione, perché mostrano «buoni» e «cattivi» tanto per le circostanze, quanto per l’indole, proprio come nella realtà. Ma era delicato dirlo su un periodo come la fine dell’occupazione tedesca (settembre 1944 - maggio 1945) e l’inizio (maggio-giugno 1945) dell'occupazione anglo-canadese dell’Aja.
Signor Verhoeven, Black Book, candidato dall’Olanda all’Oscar, non è stato poi «nominato».
«Peccato. Ma lavoro già per la prossima volta. Ho appena cominciato Azazel, giallo ambientato nel 1786 fra San Pietroburgo e Londra».
Come giudica i «nominati» alla statuetta?
«Ho visto pochi dei film in questione. Judi Dench e Meryl Streep sono bravissime. United 93 è un bel film innovativo quanto The Departed: adoro Di Caprio e Ryan Gosling! Ma forse sarà Peter O’Toole ad avere l’Oscar, vergognosamente negatogli per Lawrence d’Arabia».
Il libro nero era...
«... L’agenda di un’avvocatessa, mediatrice per evitare rappresaglie tedesche».
Fu decorata, dopo la guerra?
«No, dopo la guerra fu uccisa».
Non da tedeschi.
«Da olandesi».
L’agenda coi nomi...
«...Sparita».
Il suo film è «ispirato a eventi realmente accaduti».
«Personaggi e situazioni vengono dal saggio di Chris van der Heyden Grijs Verleden («Passato grigio»), che innova la chiave di lettura di quei fatti».
E la vulgata antifascista?
«Vuole i partigiani buoni e i nazisti cattivi, mentre per Van der Heyden eroismo e crudeltà sono facce della stessa medaglia».
Lei mostra tedeschi che torturano e partigiani che torturano egualmente. È il primo al cinema.
«Almeno in Olanda nessuno l’aveva mai fatto... Anche nella Resistenza c’era gentaglia. A vedere le loro immagini, mentre catturano i nazisti olandesi, viene da pensare: non vorrei finire in quelle mani».
Lei mostra un’ebrea innamorata di un ufficiale delle Ss.
«Rachel (Carice van Houten) fonde due partigiane e un'artista, Dora Paulsen; il capitano Müntze (Sebastian Koch) si chiamava in realtà Munthe».
Amore e morte, stile Freud?
«La mia visione deve più a Hobbes («Homo homini lupus») che a Freud».
Il capitano tedesco fu davvero fucilato dai suoi a guerra finita?
«Lui no, altri tedeschi sì. Condannati prima della resa, vennero giustiziati dopo, perché le sentenze andavano comunque applicate...».
... Per tenere la disciplina. I prigionieri tedeschi erano truppe di riserva contro i russi.
«Oggi però pare tremendo questo rigore, dopo la resa. Ma non si giudica il passato con gli occhi del presente».
Come Portiere di notte e Sette anni in Tibet, Black Book mostra un Ss buono. Perciò la chiamano revisionista.
«Sono un revisionista storico e cinematografico. E ce n’era bisogno. Non sono un revisionista politico».
Sottile distinguo. Veniamo alla questione ebraica.
«Il punto di partenza del Black Book è un gruppo di ebrei ucciso alla fine di settembre 1944, mentre tentava di passare le linee tedesche e la ricerca di chi li aveva traditi e derubati».


Il film si apre nel kibbutz del 1956 dove è finita la protagonista: ha dunque lasciato la guerra in Olanda per la guerra in Palestina.
«Ogni sopravvissuto - si dice - cela una colpa. E poi, con tutte le angherie subite - anche da partigiani, che pensano più ai “buoni olandesi” che a lei - era logico farla emigrare in Israele, nato dalla Shoah».

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