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È un vero peccato lasciare i divorziati senza comunione

La disciplina pastorale liturgica per i divorziati cattolici ha creato le basi di un doloroso e silenzioso scisma. Il problema non tocca, ovviamente, gli indifferenti e coloro che sono lontani dai sacramenti e dalla vita ecclesiale. Riguarda invece quell’ampio e grande numero di cattolici praticanti che si ritrovano nella dolorosa condizione di aver subito un fallimento o un abbandono nella vita coniugale e familiare. Alcune di queste situazioni sono peraltro totalmente prive di responsabilità soggettive e oggettive. Pensiamo per esempio a tante giovani donne precocemente lasciate dopo un matrimonio religioso da un marito meno convinto di loro dal punto di vista della fede, che ha fatto scelte radicalmente diverse. Oppure a mariti abbandonati da ragazze sposate e ritornate precipitosamente con figli al seguito a Cuba, in Brasile o a Mosca. A tutti loro si chiederebbe di mantenere una condizione di solitudine per il resto della vita, rinunciando a rifarsi una famiglia, senza peraltro aver scelto in alcun modo di porre fine a un vincolo matrimoniale assunto con piena ed integrale responsabilità.
Molto spesso il ricorso al Tribunale ecclesiastico per l’annullamento produce delle situazioni che, pur volendo sanare un male pregresso, devono ricorrere ad artifici vari e talvolta fantasiosi. Come quello di dimostrare con forzature al limite del capzioso un’immaturità psicologica di uno o di entrambi prima del matrimonio. Questo può diventare ancor più difficile paradossalmente quando il matrimonio è stato seguito dalla nascita di due o tre figli, con testimoni disposti ad attestare, non si sa con quanta attendibilità, l’affermazione di uno o di entrambi i coniugi che prima del rito avrebbero smentito la loro piena e matura adesione a una unione feconda e/o fedele.
Bene ha fatto quindi il Santo Padre a mettere il dito su questa piaga un po’ farisaica. Ma credo questa piaga vada sanata radicalmente. Magari facendo transitare la valutazione sulla possibilità di celebrare un secondo matrimonio religioso non dal Tribunale ecclesiastico, che agisce con criteri giurisdizionali e spesso formali. Forse sarebbe meglio far transitare la valutazione sulla possibilità di una nuova unione all’amministrazione pastorale del vescovo competente. Soltanto il pastore può giudicare profondamente sulla variegata e irriducibile molteplicità di situazioni personali ed umane immensamente eterogenee ed ognuna delle quali preziosa e unica. Può valutare paternamente sulla responsabilità, ma soprattutto sull’adesione a una comunione ecclesiale dalla quale non si può pensare di distaccare per sempre persone che intendono vivere integralmente nel sigillo di una piena sacramentalità. A un assassino pedofilo si può dare l’assoluzione con il sacramento della riconciliazione, perché può esprimere pentimento e penitenza per il suo peccato. Per questi fratelli divorziati, invece, il peccato è permanente e senza speranza. È vero che a parole si ripete che i divorziati sono integralmente parte della comunione ecclesiale. Ma come si può considerare invitati a una mensa coloro che sono esclusi dal partecipare al pasto eucaristico, vero momento fondativo della vita della Chiesa, oltre che del singolo credente? Pertanto più che una valutazione giuridica, la sapiente amministrazione da parte del pastore diocesano può esercitare un discernimento sulla vera vocazione prima, dopo e durante l’esistenza del vincolo. E soprattutto su nuove vere famiglie con prole che si sono ricostituite, anche nell’anoressia eucaristica e sacramentale.
L’esempio potrebbe essere quello che viene dai fratelli delle Chiese sorelle ortodosse d’Oriente, in cui si celebra un secondo matrimonio, magari in forma penitenziale e senza il trionfo dell’incoronazione, che segna la liturgia ordinaria. Questo sancisce il fatto che la Chiesa si fa testimone e notaia di un’unione consacrata dallo Spirito di cui gli sposi sono i ministri permanenti, ma che deve esistere per davvero. E non certificatrice di un legame presunto interminabile che invece non c’è mai stato, non c’è o comunque non c’è più. Le dichiarazioni di Gesù sulla non ripudiabilità delle mogli (salvo il caso di adulterio), fanno riferimento alla durezza del cuore degli ebrei, cui Mosè avrebbe dato una legge misericordiosa soprattutto per le donne. Che questa durezza non sia della nostra amata Chiesa apostolica. Colpe e responsabilità in una coppia non sono così facili da ricostruire, così come i percorsi di fede. Ma sicuramente non si può spalancare l’orizzonte a una realtà di credenti di prima, di seconda o di terza categoria. Il rischio, altrimenti, è quello che, come accade in altri ambiti della vita ecclesiale, si realizzi uno scisma silenzioso in una dilagante falsa coscienza.
I divorziati sono esclusi dall’eucaristia, ma in realtà ci si comunica comunque. O perché non si sa, o perché si sa e si ritiene che sia opportuno farlo e la comunione viene concessa per valutazione del celebrante, che magari chiude consapevolmente un occhio o tutte e due con o senza l’avallo dei confessori. E che cos’è questo allora? Una violazione dogmatica, una disobbedienza? Un sacrilegio? Discernimento o scisma? Peccato mortale o misericordia? «Sono venuto per i peccatori e non per i sani». Il cibo eucaristico è innanzitutto la medicina che unisce, santifica, risana.

È la verità misericordiosa che ci concede la libertà amorevole di figli di Dio.

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