Vertice Onu, vittoria italiana

Livio Caputo

È, nell'insieme, un momento felice per la politica estera italiana. Il vertice dei capi di Stato e di governo al Palazzo di Vetro ha appena sanzionato la nostra vittoria nella decennale battaglia per evitare che alla Germania sia assegnato un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, tagliandoci fuori dai piani alti dell'Onu; al ritorno da New York, dove si è consultato con Bush, Berlusconi ha potuto confermare la graduale riduzione del nostro contingente in Irak, non perché abbandoniamo la missione come vorrebbe il centrosinistra, ma perché nella zona di Nassirya ha già praticamente raggiunto i risultati che ci eravamo prefissi; infine, il corpo di spedizione della Nato sotto comando italiano che ha il compito di vigilare sulle elezioni di domenica in Afghanistan sta assolvendo il suo compito, nelle province di sua competenza, in maniera soddisfacente.
Se la «scelta americana» del presidente del Consiglio sta così dando i suoi frutti, anche in Europa il quadro migliora: la pressoché scontata vittoria di Angela Merkel nelle elezioni tedesche di domani e quella, probabile, di Nicolas Sarkozy nelle presidenziali francesi cambieranno il volto all'asse franco-tedesco, rendendolo molto più compatibile con un governo italiano di centrodestra. Paga, in termini di immagine, la coesione della Casa delle libertà in materia di politica estera, dove la linea dettata dal presidente del Consiglio e dal ministro degli Esteri Fini è condivisa quasi senza discussioni da tutti gli alleati: unica nota stridente è l'opposizione della Lega all'apertura di negoziati per l'adesione della Turchia alla Ue, che Berlusconi - pur con qualche prudenza - appoggia. Purtroppo, questi risultati rischiano di essere compromessi da una eventuale vittoria dell'Unione nella prossima primavera e dal conseguente arrivo di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Contrariamente a quello che raccontano i suoi sostenitori, che ne magnificano l'esperienza internazionale, il Professore ha fatto un lavoro men che mediocre come presidente della Commissione europea: non ha lasciato un buon ricordo nei palazzi di Bruxelles, ha pessimi rapporti con gli inglesi, è poco amato in Germania e francamente detestato oltre Atlantico, dove il suo impegno a ritirare immediatamente, alla Zapatero, le truppe italiane dall'Irak lo ha inserito stabilmente nell'elenco dei cattivi. Ma il fatto più grave è che, a causa delle sue divisioni interne e della sua dipendenza da partiti estremisti e visceralmente antiamericani come Rifondazione, i Comunisti italiani e i Verdi, il centrosinistra non sarà mai in grado di presentare un programma di politica estera coerente e adeguato alla attuale situazione internazionale.
Proviamo a immaginare quale sarebbe oggi la posizione dell'Italia con un governo Bertinotti e Diliberto-dipendente, anche se alla Farnesina ci fosse un moderato esperto della materia come Piero Fassino. Saremmo fuori dall'Irak, e perciò, dopo tanti sacrifici, perderemmo il credito di avere contribuito a instaurare un inizio di democrazia dove regnava il satrapo Saddam. Avremmo perso il rapporto privilegiato con Washington, e quindi anche la «copertura» che ci ha aiutato a vincere la battaglia dell'Onu. Saremmo rimasti fermi alla vecchia politica acriticamente filopalestinese, proprio nel momento in cui il mondo intero prende atto che, se c'è qualcuno che lavora per la pace in Medio Oriente, questo è oggi Israele, al punto che il vice-direttore del Corriere della Sera Magdi Allam ha proposto ieri Ariel Sharon, bestia nera della sinistra italiana, per il Nobel della Pace. Strepiteremmo perché anche i cattivi americani adottino i protocolli di Tokyo, invece di pensare a ridurre noi per primi l'emissione di gas-serra pensando, come sta facendo Berlusconi, a un ritorno al nucleare. Sposeremmo tutte le cause terzomondiste e no global in circolazione, corteggiando l'idolo di turno della sinistra, che sia Lula o Chavez. Continueremmo ad attaccarci alla vecchia retorica europeista, in un momento in cui il fallimento della Costituzione richiede iniziative di ben altro tenore. Saremmo alla retroguardia, e non all'avanguardia come oggi, nella guerra europea al terrorismo, perché la sinistra non avrebbe mai potuto varare le misure preventive che contesta a Pisanu e magari sarebbe stata anche obbligata a chiudere i centri di raccolta degli immigranti clandestini. Saremmo, alla fin fine, una specie di ectoplasma in un Occidente che si sta compattando intorno a certi valori.
La politica estera non è, di solito, un elemento decisivo nell'orientare l'elettorato.

Ma, nel 2006, gli italiani faranno bene a tenere conto di tutti questi elementi e fare un'eccezione alla regola.

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