Un vescovo cattolico massacrato in Turchia

«Noi perdoniamo chi ha compiuto questo gesto. Non è annientando chi la pensa in modo diverso che si risolvono i conflitti. L’unica strada che si deve percorrere è quella del dialogo, della conoscenza reciproca, della vicinanza e della simpatia».
Così parlò monsignor Luigi Padovese, 63 anni, vicario apostolico dell’Anatolia, durante la messa in suffragio di don Andrea Santoro, il sacerdote romano ucciso il 5 febbraio del 2006 a Trebisonda. Domani, durante la messa funebre in memoria di monsignor Luigi - anche lui morto di morte violenta; e anche lui, per un impenetrabile disegno del destino morto sul suolo turco per mano turca - un altro presule ripeterà forse quelle parole. O forse no, perché stavolta, nell’omicidio di don Luigi, la politica, la fede diversa, il dialogo non c’entrano. A uccidere monsignor Padovese, a coltellate, nel giardino di casa sua a Iskenderun, è stato il suo autista privato, Murat Altun, un convertito al cristianesimo che lavorava da quattro anni per il presule e lo aveva accompagnato due volte in Italia. Un uomo da tempo in cura per problemi psichiatrici, è stato detto subito, per allontanare il sospetto di un delitto in qualche modo «politico». Anche il governatore della provincia di Hatay, Celalettin Lekesiz, che ha seguito lo svolgimento delle prime indagini seguite all’arresto dell’omicida parla di «una questione personale» come scaturigine dell’atroce episodio. E certamente così sarà, anche se è difficile cancellare dalla memoria le immagini di don Andrea Santoro, trucidato nell’ambito di una ventata anti cristiana che ciclicamente percorre un Paese dove i cattolici sono solo 30mila su 70 milioni di abitanti, e dove l’«orgoglio musulmano» (come si è visto anche nel recente sanguinoso confronto tra pacifisti e forze di sicurezza israeliane) prende sempre più piede.
Presidente da oltre sei anni della Conferenza episcopale turca, oltre che vicario apostolico dell’Anatolia, monsignor Padovese era entrato nel 1965 nell’ordine dei frati cappuccini. Per sedici anni era stato direttore dell’Istituto di Spiritualità della pontificia università dell’Antonianum, impegnandosi nell’ecumenismo e nel dialogo con l’islam. Solo l’altro ieri monsignor Padovese aveva incontrato le autorità turche per affrontare i problemi legati alla minoranza cristiana. Oggi sarebbe invece partito per Cipro, per festeggiare Benedetto XVI, in viaggio sull’isola, e per ricevere quell’«Instrumentum laboris» del Sinodo per le Chiese del Medio Oriente, un documento che affronta anche il tema delle violenze contro i cristiani.
Qualunque sia la causa scatenante dell’aggressione di cui è rimasto vittima monsignor Padovese, il suo posto vuoto all’incontro col Papa confermerà quanto sia fragile e indifesa la vita dei religiosi e dei cristiani mediorientali, stretti tra il fondamentalismo islamico, l’autoritarismo di molti Stati e le tensioni derivanti dall’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Tutti temi che trovano largo spazio nel documento di base del prossimo Sinodo vaticano dedicato in ottobre al Medio Oriente. Un documento che ruota intorno a una esortazione che sarà poi il leit motiv del Sinodo stesso: e cioè un appello accorato rivolto soprattutto all’Occidente «perché prenda coscienza», come ripetono in ambienti vicini alla Conferenza episcopale turca, «che la presenza dei cristiani nell’area non è una ricchezza solo per la Chiesa cattolica ma anche per quanti hanno a cuore un futuro di democrazia e di pluralismo in Medio Oriente».
Don Andrea Santoro ucciso nel 2004 a Trebisonda.

Tre anni dopo un frate francescano, Andrea Franchini, aggredito da un diciannovenne a Smirne, al termine della messa. Ora la morte violenta di monsignor Luigi Padovese. Ce n’è quanto basta per ricordarci che non è facile essere cristiani a est della Grecia.

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