da Roma
Chiede perdono, con un filo di commozione, per la «debolezza e mediocrità» della sua preghiera, e per non aver coltivato come avrebbe voluto alcuni rapporti di amicizia, preso com’era dall’«assiduità del lavoro» e dalle responsabilità. Assicura di voler continuare «a lavorare, in una forma diversa», perché «gli italiani di oggi sappiano guardare alla vita con l’occhio della fede». È un’omelia inedita, che suona come un commiato, quella che il cardinale Camillo Ruini ha pronunciato ieri sera in Laterano, celebrando, circondato dai parroci, il 25° anniversario di episcopato, alla vigilia della nomina del successore, che avverrà il 27 giugno. A prendere il suo posto come Vicario di Roma sarà il cardinale Agostino Vallini, attuale Prefetto della Segnatura apostolica, già ausiliare di Napoli e vescovo di Albano.
Con il «pensionamento» di Ruini, che da oltre un anno ha lasciato la presidenza della Cei nelle mani del cardinale Bagnasco, esce di scena il principale protagonista della vita della Chiesa italiana negli ultimi diciassette anni. Nominato vescovo ausiliare di Reggio Emilia nel 1983, «don Camillo» lavorò nel comitato preparatorio del convegno di Loreto, che due anni dopo sancì anche per il cattolicesimo italiano il passaggio verso una testimonianza pubblica più incisiva, in linea col nuovo Papa polacco. Così, Wojtyla decise di affidargli la Segreteria della Cei presieduta dal cardinale Ugo Poletti e nel 1991 lo scelse per succedere al porporato in entrambi gli incarichi, quello di presidente dei vescovi italiani e quello di Vicario di Roma.
Per spiegare quale sia stato il suo atteggiamento, Ruini ha citato le parole del cardinale Wyszynski e di Giovanni Paolo II: «Per un vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta», e ancora, «la più grande mancanza dell’apostolo è la paura». Ma ha spiegato di non volersi riferire al coraggio verso «la pressione» dell’opinione pubblica, «non di rado costruita dai mezzi di comunicazione». In realtà, quello della pressione mediatica è stato, «un problema abbastanza lieve» perché, ripete citandosi, «le pallottole di carta non fanno molta paura». Difficile, invece, è stato piuttosto, «riuscire a congiungere, anche nel modo di comunicare, la fermezza con l’amore» nel quotidiano governo della diocesi.
Il cardinale si è quindi soffermato sulla «fortezza nell’annuncio della testimonianza pubblica della fede», uno dei capisaldi del suo episcopato («meglio contestati che irrilevanti», ebbe a dire qualche tempo fa), rivelando che gli è stato fondamentale l’esempio dei Papi: «In molte occasioni ho percepito quasi fisicamente che sarebbe stato ingiusto lasciarli soli». Essere a fianco del Pontefice, soprattutto quando il suo insegnamento risulta scomodo, ecco il compito del vescovo: «Se tutto il corpo episcopale fosse stato forte ed esplicito sotto questo profilo, varie difficoltà, nella Chiesa, sarebbero state meno gravi». Poi aggiunge: «Ho fatto poco, certamente non abbastanza, per meritare la solidarietà che ho ricevuto, e ne chiedo scusa. Il contributo che ho cercato di dare è consistito soprattutto nel senso del dovere e quindi nell'assiduità al lavoro e nell’assumermi le mie responsabilità». Ruini ringrazia tutti coloro che hanno collaborato con lui, dispiaciuto di «aver avuto poco tempo» per coltivare i «rapporti preziosi» di amicizia e di vicinanza «anche al di fuori delle strutture ecclesiali». Poi il «mea culpa» più significativo: «Il rammarico più grande riguarda però la mia debolezza e mediocrità in quello che è il primo compito di ogni vescovo: la preghiera. Specialmente di questa debolezza chiedo perdono e il mio primo proposito per il futuro è quello di porvi in qualche modo rimedio».
Infine, il grande tessitore della politica ecclesiale, invita a guardare alla «radicalità della sfida» che è posta oggi alla fede cristiana «nei comportamenti e nel pensiero» mettendo però in guardia dalla «tentazione della sfiducia». E conclude: «Nel mio piccolo vorrei continuare a lavorare, in una forma diversa, perché i romani e gli italiani di oggi sappiano guardare al mondo e alla vita con l'occhio della fede, e così non si affliggano» come coloro che «non hanno speranza».
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