Cultura e Spettacoli

Vi accuso, falsi intellettuali senza poesia

La critica, l’editoria e soprattutto la televisione ormai hanno emarginato i veri poeti, preferendo invece cantanti, parolieri e cultori d’arte varia.... Si applaude Zingaretti ma si zittisce Carducci

Vi accuso, falsi intellettuali senza poesia

La poesia è stata per secoli il midollo spinale della lingua e della cultura italiana. Quello che le reggeva in piedi e ne potenziava le funzioni vitali. La poesia aveva inventato e sognato la stessa Italia come nazione, da Dante e Petrarca sino al D’Annunzio nazionalista e al Pascoli socialista che la definì «la grande proletaria».

Nel bene e nel male, da destra o da sinistra, la poesia era incardinata nella storia, e attraverso la scuola nella coscienza collettiva di un Paese. Generazioni intere di italiani, dalla Lombardia alla Sicilia, hanno recitato a memoria Ariosto e Tasso, Carducci e Leopardi, e in quei versi si rinsaldava, nelle diversità, l’appartenenza allo stesso popolo. Tutto ciò che di più innovativo e di più energizzante è avvenuto nel linguaggio e nell’immaginario italiano passa per la poesia: il Futurismo di Marinetti, e via via Campana, Palazzeschi, Ungaretti con le sue verticali, allusive accensioni visionarie, Montale con il suo duro procedere per emblemi e assenze. Ed è nella poesia che muovono i primi passi essenziali Pavese e Pasolini.

Oggi tutto questo sembra lontano mille anni, e totalmente perduto. La stessa critica, in molti casi, non attribuisce alla poesia nessun ruolo storico e intellettuale, non cerca di offrire un canone ragionato, con un minimo di obiettività e di classificazione. Le scelte sembrano un fatto privato, di idiosincrasie o di amicizie, di vicinanze casuali, condominiali. Una volta ti si chiedeva: hai pubblicato diversi libri? Sei in diverse antologie? Hai avuto recensioni importanti su grandi giornali? Sei tradotto all’estero nelle lingue che contano? Criteri molto esterni, che non bastavano a qualificarti per «poeta», titolo troppo impegnativo, investitura che nessuno dovrebbe azzardare per se stesso. Ma intanto chiarivano il paesaggio. Oggi, nella selva mediatica, tutti vengono chiamati «poeti», cantanti, parolieri, cultori d’arte varia, chef, stilisti, insomma tutti fuorché coloro che all’arte dei versi hanno dedicato la vita.

La poesia diventa sfogo emozionale, diario in pubblico, gioco socializzante su Facebook: è alla portata di tutti, e per questo non è più niente. Questo non è un grido di dolore. Io non credo affatto nella morte della poesia. Questo è un atto d’accusa. Contro un’idea di poesia che la svuota della sua essenza conoscitiva, che la fa diventare qualcosa di casuale, narcisistico, alla fine patetico: parole messe in fila con un «a capo» a capocchia, nessuna musicalità interna, nessuna coscienza metrica, nessuna tensione spirituale. Ma questo è anche un atto d’accusa contro una classe dirigente intellettuale che sembra avere paura o fastidio della poesia, e che fa il possibile per bandirla o travisarne i modelli.

Uno dei canali che potrebbe veicolare meglio la poesia è la televisione, per le qualità comuni di velocità e di sintesi. Ma che difficoltà a proporre l’accostamento! Ricordo un altissimo dirigente di Viale Mazzini il quale, citando uno scolastico Carducci, sbottò con un elegante «che palle!», Maurizio Costanzo che mi guardò in tralice, seccato, intimandomi di non andare sul difficile mentre accennavo al rapporto tra poesia e jazz, Enza Sampò con la quale dovetti fare un lungo gentile braccio di ferro per leggere un sonetto di Foscolo in una trasmissione pomeridiana di Raiuno, di cui era autrice.

Insomma, si vola basso, pensando che sia sempre più popolare o pop. Ma chi lo dice? Volare basso significa spesso soltanto insensatezza, volgarità arrogante e infelice, ripetitività, abbrutimento. Significa, oggi, la ditta Belén&Corona. Un trash che piace, sin dal nome, a certi intellettuali medi, così si sentono più alti.
Non conosco niente di più popolare, e pop, della vera poesia: Ungaretti e Whitman, Baudelaire e Borges, autori visionari e profetici o dandy ed elitari, parlano al cuore di un giovane occidentale (e forse anche orientale) del XXI secolo meglio di tanta spazzatura mediatica che ci soffoca più che a Napoli. Invece no. Si confondono i piani, si mistifica. Quando nella fortunata trasmissione di Fazio e Saviano un attore come Luca Zingaretti va al microfono e con aria ispirata recita: «Vieni via con me... It’s wonderful, it’s wonderful...» come fosse un testo di Caproni o di Luzi, non è mica tanto wonderful, e fa un torto a quel grande musicista che è Paolo Conte, e un torto alla poesia. Ma forse Michele Serra, uno degli autori della trasmissione, è solo coerente con se stesso, autore di un libro intitolato non a caso Poetastro. C’è poco da scherzare.

La poesia è qualcosa di terribilmente serio, anche se sa essere nello stesso tempo magnificamente, ritmicamente leggera. È il lievito del linguaggio. È il pane dell’anima. È il canto dell’universo. La realtà di oggi la ignora. Ma lei continua, a dispetto di tutto.
Perché la poesia non è fatta per comunicare o esprimere e basta. È fatta per creare.

È un incommensurabile atto d’amore per la vita, e per la sua oscura o luminosa bellezza.

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