«Vi racconto la guerra sporca di Hamas e come ha tradito il popolo palestinese»

Il «Macellaio», leader militare di Fatah, spiega: «Sono armati e addestrati da specialisti iraniani, che sono a Gaza»

da Ramallah
Guardando la sua faccia si può capire cos’è successo a Gaza quando Hamas ha preso il potere. Il colonnello è il dolore e la rabbia impersonificati, ed è anche l’espressione, per i modi spicci e prepotenti, di un potere esercitato per anni senza remore, fino al crollo. Ispira paura e pietà. Come tutta Fatah. Ha una faccia grossa e gonfia sul corpo atticciato, gli occhi rossi che improvvisamente si accendono d’odio, le guance grigie di barba non fatta. Lo incontriamo a Ramallah al caffè “Pronto” con due generali, come lui fuggiti da Gaza. Niente nomi perché i leader militari non possono parlare. È infatti la prima volta che viene consegnata alla stampa una testimonianza del genere. Ma il suo soprannome è “il macellaio”, jazar; è uno dei sommi comandanti di Forza 17, il gruppo speciale creato da Arafat; ha un piccolo anello al mignolo, un orologio d’oro e d’argento e indossa una camicia nera, che scosta per farmi vedere un livido sulla spalla sinistra: «Ho sparato così tanto che ancora mi fa male».
Ha sparato tanto ovunque, in Somalia, in Iran, soprattutto quando era con Arafat: con lui sempre, in Giordania quando re Abdullah sterminò i palestinesi nel Settembre Nero, al suo fianco in Libano, con lui sulla nave in fuga a Tunisi, era a Sabra e Chatila... «Lui ci insegnò che niente è più sacro della nostra fratellanza, che i palestinesi sono tutt’uno - racconta - ma con Hamas ho visto la guerra più sporca mai incontrata».
Il «macellaio» non è stato un angioletto a Gaza: le milizie di Fatah hanno spadroneggiato, c’è chi ricorda come tutti si scansavano al suo passaggio, come la sua intera famiglia fosse rispettata, come le sue armi fossero sempre in uso. Beve il secondo caffelatte e sbocconcella un po’ di pane e olive. Fuma, fuma. Le mani sono macchiate di tabacco. Ha cinquant’anni, ma l’ultima esperienza gliene ha regalati molti di più.
«Lavoro anche qui nelle forze di sicurezza, ma ancora sono in cura». E racconta: «Quattro giorni dopo l’inizio della guerra a Gaza, alle due di notte, alla fine di uno scontro micidiale e parecchie perdite vicino all’Ospedale, Hamas mi manda a dire attraverso gli egiziani che chiede una tregua. C’erano morti e feriti da ambo le parti, stavamo però vincendo. Tenevamo delle imprendibili posizioni in cima agli edifici più alti, “le torri”, davanti al campo profughi di Shati, al porto, all’Università di Gaza, tutte le torri intorno agli uffici di polizia... insomma controllavamo i punti cruciali. Siamo scesi in base agli accordi mediati dagli egiziani. Ma Hamas aveva mentito: a tradimento ha occupato le nostre torri, ha diviso la zona in blocchi e ci ha intrappolato. Ci hanno sparato dalle torri spingendoci verso la spiaggia, isolandoci a Dir El Ballah, a Baraji, a Khan Younis. Eravamo bersagli sulla spiaggia, ridotti a 35 uomini. I miei altri 185 uomini non potevano raggiungerci, e gli avversari erano migliaia. Avevamo morti e feriti, ma resistevamo. Ed ecco che dalle moschee e da ogni altoparlante, si chiamano le famiglie dei giovani sulla spiaggia: “Andate a prendere i vostri figli che sono nelle forze di polizia e in Forza 17, portateli a casa o moriranno tutti”. Sulla spiaggia, giungono madri con i veli e gli abiti neri, i bambini urlanti al seguito; le donne portavano grandi borse con abiti civili. I miei uomini allora hanno cominciato a denudarsi e a gettare le divise in mare, hanno poi indossato i vestiti civili e se ne sono andati».
Fra i morti e i feriti, anche il colonnello riuscì a travestirsi, a rimuovere i gradi, a indossare abiti civili e a fuggire. «Ho cercato rifugio presso la delegazione egiziana, al decimo piano di una torre assieme ad altri nove comandanti - spiega -. Non c’è voluto molto perché Hamas riuscisse a prendere il rifugio». “Adesso sei morto” gli gridarono. «Sono sceso con le armi puntate alla testa - racconta il macellaio -, nella strada fucilavano i soldati sul posto. Mi dissero: guarda bene perché ora creperai anche tu. Io gli ho risposto “Ammazzatemi ora e buttatemi nella spazzatura”. Un altro grande comandante, Samih el Madun, leader delle Brigate Martiri di Al Aqsa, dopo averlo ucciso sono passati con un’auto sulla sua testa tante volte da decapitarlo. Bacio la terra, ero già morto».
Non ci spiega come si è salvato, forse non capiremmo nemmeno le complicate transazioni politico-familiari per cui con una jeep è arrivato a Ramallah. Non capiamo neppure con quale fiducia dica a voce bassa: «Alla mia famiglia non faranno del male. Haniyeh, Zahar sanno che se dovesse succedere qualcosa, sarebbero morti. Me ne occuperei personalmente».
Nella mattinata bollente, il paesaggio secolare di Ramallah disegna uno scenario che il colonnello non sa e non vuole conciliare con quello di Gaza: «Hamas ha tradito. Chi ha pianificato la guerra? Chi l’ha armato? Chi li ha addestrati? Glielo dico io: gli iraniani e i siriani. I giovani vanno a centinaia all’estero per prepararsi alla guerra contro i propri fratelli. Gli iraniani sono a Gaza. Io stesso ne ho incontrati due, esperti militari, all’Università. Vorrei tornare a Gaza per combattere, non ci sarà riconciliazione. Forse, una rivoluzione. Il potere toglierà loro l’aureola di onestà, e la paura li renderà odiosi».
Oggi arriva Blair in Medio Oriente, può aiutare? Il colonnello ride. «Il Medio Oriente non è un caffè per le chiacchiere. Qui fa caldo e si spara», conclude triste. Mi sottolinea di essere addolorato «...per tutti quei morti, perché è finita un’era, quella del popolo palestinese fraterno e fedele. Ci voleva Arafat. Abu Mazen è un bravo politico, ma non è Abu Ammar. Non gli piace lo scontro, odia il sangue».

Perché non avete combattuto per vincere? «Avevamo già combattuto per sei mesi, cercando di evitare i civili. Poi loro si sono messi a usare contro di noi i razzi anticarro e a mettere in mezzo donne e bambini. Noi non l’abbiamo fatto».
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