nostro inviato a Kabul
Nelle palazzine color sabbia della vecchia caserma di epoca sovietica, dove sono acquartierati i ragazzi del 186°, non si dorme mai molto. Il pericolo, l’attacco improvviso, l’emergenza bruciante sono il pane e il companatico del 186°. Qui, in fondo alla Desperado Highway, in questa abbacinante trappola perennemente ingolfata di vento in cui siamo venuti a cacciarci, un attacco del nemico è più che possibile, ci aveva spiegato all’arrivo il capitano Alessandro Costagliola, responsabile della sicurezza a Camp Invicta.
Però è difficile, dopo una serata passata in allegria all’oratorio di don Salvatore Nicotra, il cappellano militare, pensare al subbuglio improvviso, a ordini brucianti gridati nella notte, a tenenti che entrano nelle camerate accendendo le luci e tirando i ragazzi giù dalle brande. Don Salvatore aveva offerto pizza e birra. Poi erano state chiacchiere e chiacchiere, inframmezzate da dei gran «Ti ricordi?» fra i giornalisti di lungo corso presenti e i ragazzi in mimetica che si sono fatti la Somalia, la Bosnia e il Kosovo.
Alle 2 del mattino si erano messi in moto gli americani. Quattromila marines, 650 ex mujaheddin che si stanno lentamente abituando a vestire la divisa dell’esercito afghano e 50 aeroplani. L’operazione più seria dai tempi del Vietnam, dicono. Noi, a seguire. «Ex Abrupto» si chiama l’operazione dei nostri baschi rossi. Cento paracadutisti del 186° in appoggio a 500 soldati afghani e a 100 poliziotti. Un rastrellamento a pettine fitto, una specie di prova d’orchestra guidata dagli americani.
A Sud, nella provincia di Helmand, nella regione di Kandahar cara al mullah Omar, il «comandante dei fedeli» talebani, c’è fermento da un pezzo. Mercoledì pomeriggio, conferma Londra, gli uomini del Grande Turbante hanno ammazzato due soldati del I battaglione «Wales». Ma il colpo grosso, gli «studenti della legge» l’avevano messo a segno il giorno prima, martedì, catturando un soldato americano. Propaganda? No. Parrebbe di no. Il capo talebano Bahram, uno che milita sotto la cupola del capo mandamento Aqqani, facendosi vivo dall’area di Khost, annuncia la «lieta novella» alla sua gente in armi. «Uno dei nostri luogotenenti sul campo, il malaui Sangin, ha catturato un soldato americano e tre militari afghani nel distretto di Yusuf Khail, nella provincia di Paktia». Il portavoce militare Usa, Elizabeth Mathias, conferma, a denti stretti. «Un soldato - dice laconico, senza rivelare né il nome né il grado - manca all’appello da martedì».
Ma non sono i due morti inglesi, e neppure - posto che venga confermato - il rapimento del soldato americano (che fa pensare alla analoga sorte toccata al soldato israeliano Gilad Shalit) ad aver fatto scattare la massiccia operazione decisa dal generale Usa Stanley Mc Chrystal, il nuovo comandante in capo della coalizione. La batosta era nell’aria da un pezzo. Creare dei «box» di qualche decina di chilometri quadrati, all’interno dei quali i marines hanno il mandato di cercare e distruggere il nemico, senza troppi complimenti, evidentemente non basta più. O funziona poco. Ora si volta pagina. Si pesca «a strascico». E se i pesci scappano, c’è pronto un altro «peschereccio», con la sua rete di fondo, che sta muovendo loro incontro.
Noi siamo quel «peschereccio». Gli americani da Sud, ben addentro alla valle di Musahi, ma in una zona che esula dalla competenza italiana. Noi, giù dal forte «Sterzing», il nostro posto di osservazione avanzato nella stessa cruciale area. In piena notte, a fari spenti, i visori notturni montati sull’elmetto calati sugli occhi. «Khanjar», colpo di spada, è il nome in codice dell’operazione a guida americana. Un’operazione, dice un portavoce dello staff Usa, «tipica della filosofia del generale Mc Chrystal. Non si va per catturare nemici. Si va per starci. Il successo lo si vede dal numero di afghani posti sotto protezione, e non dal numero degli insorti uccisi».
A metà pomeriggio, il colonnello Aldo Zizzo, comandante del 186°, comunica che nella nostra rete sono finiti due talebani. «Non abbiamo sparato un colpo. Ma in questo momento non posso dire niente di più. L’operazione è ancora in corso».
Nella controra, nei viali di Camp Invicta si vede solo il «sindaco» della base, il luogotenente Raffaele Cappai (è lui che provvede all’acquartieramento dei soldati e degli ospiti) che va zigzagando con la sua bicicletta di fabbricazione cinese. Sulla targa c’è scritto: «E vai!». Tutti gli altri sono sul chi vive, ciascuno impegnato nella sua «attività».
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