Giustizia (vedi caso Sozzani), migranti, porti aperti o chiusi, ambiente (decreto clima), grandi opere, chiusura domenicale dei negozi, taglio dei parlamentari. Per non parlare delle alleanze per le elezioni regionali: tra i neo-alleati Pd e Cinque Stelle gli argomenti di scontro sono innumerevoli, e il governo Conte Due rischia il Vietnam ancor più del Conte Uno, che tutto sommato era basato su una naturale affinità tra populisti. Per evitare il caos in Parlamento, la settimana prossima ci saranno vertici informali di maggioranza nelle diverse commissioni parlamentari. Ci sono anche due presidenti di Commissione promossi al governo da sostituire: i grillini Catalfo (Lavoro) e Sileri (Sanità). I dem vogliono la prima per Tommaso Nannicini, ma i Cinque Stelle non intendono mollare le poltrone.
Fare un accordo nella piccola Umbria, per esempio, è ancora più complicato che fare un'intesa di governo nazionale: a una settimana dalla presentazione delle liste non se ne viene ancora a capo. È vero che, dopo la crisi sventatamente aperta da Salvini, i Cinque Stelle erano così disperati che avrebbero fatto patti con chiunque pur di non andare al voto. Ora che si sentono in salvo provano a dettare legge, impuntandosi ad esempio sulla candidatura della (non certo brillante) sindaca di Assisi perché viene dalle loro file: «Aspettiamo risposte dal Pd», intima Di Maio. Il problema è che M5s deve anche tenere bada i suoi guastatori interni: a mandare all'aria un accordo quasi raggiunto sulle regionali umbre ha contribuito non poco (e volontariamente) quel Di Battista che è una delle principali vittime della nascita del governo giallorosso. Il povero Dibba aveva puntato tutto sul voto anticipato, per farsi dare un seggio sicuro e tornare finalmente in Parlamento, con un lauto stipendio e uno status che ora gli mancano assai. Invece niente: è rimasto a spasso, e si può capire l'irritazione. Ora tenta in tutti i modi di sabotare la maggioranza, nella speranza che salti, aizzando i malumori interni a un partito ormai acefalo: Di Maio è uscito assai indebolito dalla vicenda governo, buona parte dei Cinque Stelle non lo riconosce più come capo, e dai gruppi parlamentari alla periferia vige una sostanziale anarchia interna, e una permanente guerriglia tra correnti. Quasi peggio del Pd, dove almeno la scissione renziana ha fatto qualche chiarezza.
Così i rischi di scontro si moltiplicano. Il decreto-manifesto dell'ineffabile ministro dell'Ambiente Costa è stato stoppato dal ministero dell'Economia di Gualtieri (Pd) perché non c'era mezzo euro di copertura, ma anche i ministri dem di Agricoltura e Infrastrutture, Teresa Bellanova e Paola De Micheli, hanno fatto muro per le invasioni di campo del collega nelle loro giurisdizioni. Alla Farnesina il grillino Di Stefano, fedelissimo di Di Maio, vuole rubare al renziano Ivan Scalfarotto la delega al Commercio Estero attribuitagli dagli accordi di governo: non sa nulla della materia (Scalfarotto ha invece già gestito il tema nella scorsa legislatura), ma ha capito che il piatto è ricco e ha dichiarato guerra al collega: «Dubito che Di Maio attribuirà la delega a lui», sibila.
Sul totem grillino del taglio dei parlamentari («sarà la prima prova per capire se possiamo fidarci del Pd», dice Di Maio) non si va avanti: il Pd lo voterà solo se si mettono nero su bianco le modifiche costituzionali relative e soprattutto la legge elettorale proporzionale: tempi lunghi, come minimo.
Tensione anche sul provvedimento anti-domeniche su cui Lega e M5s avevano trovato l'accordo per la serrata di negozi e centri commerciali nei giorni festivi: il Pd non ci sta, dice che una misura del genere riuscirebbe solo a deprimere ulteriormente i consumi. Non a caso la materia è rimasta fuori dal programma di governo. «Quell'impianto non può restare», taglia corto il Pd Beneamati che segue il dossier.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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