Bossi questa volta si beccherà gli applausi degli anarchici, di destra e di sinistra, comunitari e individualisti, quelli di Bakunin e degli americani che guardano il mondo con gli stessi occhi di Murray Rothbard. Tutto nasce da un comizio del primo agosto, ad Arcene, sulla statale che da Treviglio va a Bergamo. Qui nel Medioevo guelfi e ghibellini se le diedero di santa ragione. Il Senatùr deve aver sentito aria di disfida e non si è risparmiato. Che ha detto? «Lo Stato è delinquente. Ci ha portato via risorse. Attenti però a non rompere troppo i coglioni alla gente del Nord». Applausi.
Le parole di Bossi sono scese giù, fino a toccare Salvatore Mammola, segretario dellIdv di Messina. Indignazione. Il segretario dipietrista scrive alle procure di Messina, Roma e Bergamo, manda tutto in copia per conoscenza al tribunale dei ministri e al presidente della Repubblica, e denuncia Bossi per «vilipendio, offese e minacce allo Stato italiano e violazione del giuramento di fedeltà alla Costituzione». Bum bum.
Il vilipendio è un reato antico, che sa di sacro, e bene o male è una censura alle opinioni di un individuo. È lidea di intoccabilità di certe figure o istituzioni: la bandiera, il presidente, lo Stato, la patria. Il Senatùr questa accusa se lè già beccata due volte. È recidivo. In quei casi per aver offeso la bandiera. Il 14 settembre 1997 disse che il tricolore lo usava come carta igienica. Questa volta si dice che un ministro dovrebbe avere più rispetto per lo Stato. Forse. Ma non è poi così scontato. Un ministro può pensare, liberamente, che lo Stato rubi risorse ai suoi cittadini. Può pensare, liberamente, che lo Stato è delinquente, predone, carogna, assassino, clientelare, liberticida, inutile, dannoso, pachidermico, spione. Un ministro, insomma, è libero di non amare lo Stato. Una contraddizione politica? Sì, ma non morale e neppure penale.
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