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Vincent Van Gogh e l’arte dell’infelicità

Cosa c’è di misterioso e attraente nell’opera di Van Gogh? C’è una rapacità della vita, una volontà di divorare tutto, fino a rendere indigesta la pittura. Non c’è dolcezza, delicatezza, ma violenza.
Di tutti i pittori nessuno più di lui ha considerato la pittura come sfogo, non sublimazione. Van Gogh è al limite, là dove la pittura non serve più. Così si chiude una storia e se ne apre un’altra. È un paradosso: ciò che è guardato con indifferenza o lasciato ai margini si pone al centro. C’è un momento nell’arte moderna in cui non c’è più niente da spiegare. I significati simbolici, le allegorie, i temi religiosi sempre relativi a una cultura, così come i soggetti storici e mitologici che richiedono comunque una conoscenza letteraria o religiosa, lasciano il posto a soggetti quotidiani, comuni. E non si può certo parlare di una pittura di genere, nature morte o paesaggi, bene o male resistenti fino agli impressionisti.
Nei quadri di Van Gogh c’è il racconto di un’umanità sofferente, e la sua intenzione non è il pietismo, ma l’epica. Un’epica eroica dove i feticci sono presi dal mondo dei contadini, ma sono perfettamente riconoscibili da chiunque e non chiedono parole di spiegazione. Nelle sue prove iniziali Van Gogh rappresenta la miseria, gli ambienti contadini, l’infelicità vicino alla natura, senza idillio. I suoi personaggi sono fuori della storia, sono i vinti che non potranno mai mutare la loro condizione, sono anch’essi «nature morte» come le scarpe, le sedie, i letti, le stanze che li rappresentano. Van Gogh fin da subito, anche nel realismo ha una visione disperata. Non c’è rimedio, non c’è consolazione alla dannazione della miseria: l’inferno è su questa terra.
Van Gogh avrebbe trovato sorprendente il destino beffardo che ha fatto di lui, poeta della miseria irreparabile, il pittore più costoso del mondo. I ricchi non hanno temuto di comprare le sue immagini di disperante povertà. E Van Gogh è entrato d’autorità nella storiografia ufficiale con più peso di chiunque altro e con il compito di inaugurare l’arte moderna. Il primo atto è la sostituzione del bello con il brutto, o anche delle teste con i piedi. Ed ecco che al ritratto del personaggio si sostituisce un paio di scarpe anonime; e l’intenzione è così spiritualmente alta che si può parlare di un «ritratto delle scarpe»; e di questo Van Gogh era perfettamente cosciente. Si trattava per lui di non indulgere a compiacimenti, di evitare comunque il rischio di un estetismo della miseria implicito in tutta la pittura di genere. Van Gogh licenziò più di un dipinto con soggetti bassi, banali e tentò in ognuno una suprema allegoria dell’umanità senza destino.
In tutta la sua opera c’è l’immagine del lavoro, della condanna dell’uomo, che conosce anche l’euforia dell’infelicità. Van Gogh non esce mai dal tema contadino: ci ritorna inevitabilmente anche nei dipinti di pittura chiara dell’epoca di Arles. Apparentemente, nulla è più distante dal mondo dei Mangiatori di patate, dall’eleganza puramente decorativa, delle giapponeserie.
Anche il gusto giapponese, esplicitamente dichiarato da alcuni dipinti in cui gli alberi di pesco o di pero sono una sigla decorativa, è un modo per travalicare la pittura con la vita. Van Gogh accentua, esaspera, trasforma anche la cosa più comune in allucinazione. La sua ossessione resta il mondo contadino. Il campo coltivato con gli arnesi di lavoro è il simbolo della vita: sul campo l’unico eroe, riproduttore di vita è il Seminatore la cui azione copre l’intero arco del giorno, dall’alba alla notte. Il sole è vicino, incombe sull’uomo e sui paesi all’orizzonte ed è una luce senza rimedio che segue l’uomo ovunque, anche di notte, nella Sala da biliardo. Il sole di Van Gogh risplende anche nella scelta dei fiori, I girasoli, e irradia senza sosta, anche dal centro della terra, facendo pulsare le pietre del selciato così come ogni foglia e ogni spiga. Anche la notte stellata è una notte di soli: la grande allegoria della vita e della natura di Van Gogh è in questa esasperazione luminosa: nel fondo giallo, uniforme, sovrumano, più del fondo oro dei maestri antichi, della natura morta con Il vaso di iris. L’idea di una luce assoluta sembra fornire un’interpretazione in immagini, al concetto di un altro grande olandese, il filosofo Baruch Spinosa: Deus sive natura.
La divinità è ovunque, è nello sguardo degli uomini perduto in un abisso di cui non conosceremo il fondo. E per quanti autoritratti Van Gogh ci avesse consegnato, l’umanità sarebbe stata sempre altrove. Così anche i fiori, il cielo, hanno occhi e non finiscono di guardare mentre noi li guardiamo. Ogni particella di colore di Van Gogh vive, esprime luce.
La pittura non rappresenta la realtà e neppure una sua esasperata visione come in Munch, come in Ensor. La pittura è, per Van Gogh, la realtà.
Nel periodo giovanile, all’Aia, tutta la ricerca di Van Gogh, ruota intorno al mondo contadino, con studi di volti, di oggetti domestici, di scarpe. Questi dipinti che testimoniano la grande suggestione, per Van Gogh, dell’opera di Daumier, dell’opera di Millet, sono caratterizzati da una totale assenza di luce, da opacità di materia la più lontana possibile dagli esiti stupefacenti della maturità. Van Gogh si pone nel solco della grande tradizione naturalistica ma non persegue un virtuosismo luministico alla Gherardo delle Notti. Vuole semplicemente rendere la pesantezza del lavoro contadino quotidiano. Nel maggio del 1885 scriveva: «Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole».
Il capolavoro finale come il più sonoro e spettacolare dei fuochi d’artificio è il Campo di grano con corvi, un’opera del luglio 1890, pochi giorni prima di morire. Inedito è il motivo del volo dei corvi, fin troppo scoperto presagio. Il dipinto si isola dalle opere dello stesso momento per una esasperazione della luminosità accentuata dai contrasti e ottenuta nella più assoluta arbitrarietà. La pittura contemporanea ha qui il suo atto di fondazione. Prima della calma Van Gogh riferisce a sé la riflessione di Delacroix: «Ho trovato la pittura quando non avevo più né denti, né fiato». Oramai tutta la vita è in gioco: occorre salvarne il più possibile nella pittura. Van Gogh vuole mettere dentro tutto, non gli interessa ciò che vede ma ciò che sente.
L’immagine della realtà deve restare non come apparenza ma come apparizione. Noi, ora, vediamo la sua anima. E Van Gogh lo sapeva. Scrive a proposito di questo dipinto e di due tele compagne: «Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la tristezza e l’estrema solitudine».
Più niente corrisponde a regole, a norme, a immagini già date. Noi vediamo meno di quello che Van Gogh ha visto oltre i confini della ragione.

La sua conclusione fu: «Per il mio lavoro io rischio la vita e la mia ragione vi è quasi naufragata».

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