Il virus del terrore fatto in casa In Italia scovati 106 estremisti

Milano Centosei condanne per associazione terrorista, dall’11 settembre 2001 - il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle - al maggio di quest’anno. Ecco il primo bilancio giudiziario delle indagini sulla penetrazione in Italia della guerra santa islamica, ricostruito accorpando l’attività delle Procure che un po’ in tutta la Penisola - ma soprattutto al nord - si occupano delle inchieste sull’integralismo arabo.
È un bilancio che potrebbe indurre all’ottimismo, perché racconta come la prima ondata dell’offensiva terrorista sia stata falcidiata dalle indagini e dai processi. In carcere con condanne pesanti sono finiti, insieme ad una pletora di gregari, anche i colonnelli delle tante, variegate unità operative della galassia radicale: come Abu Salman - alias Cherif Said Ben Abdelhakim - tunisino, che sta scontando otto anni e dieci mesi, o Majid Muhamad, iracheno, condannato a dieci anni, o Assalam Ulikum - ovvero Ben Yahia Mouldi Ben Rachid - anche lui tunisino, anche lui con dieci anni sulla groppa, tutti nomi che in questi anni hanno segnato le inchieste di Digos e carabinieri sull’offensiva jihadista in Italia.
Non era - va ricordato - una offensiva soltanto propagandista. Per almeno cinque anni, l’Italia è stata a pieno titolo una retrovia operativa di Al Qaida: qui sono state organizzate missioni suicide, arruolati martiri e combattenti, raccolti fondi per i campi che nel Kurdistan iracheno sfornavano truppe da inviare in battaglia contro gli invasori occidentali. È possibile che inizialmente la gravità della presenza terrorista sia stata sottovalutata. Ma è sicuro che - quando le inchieste sono partite - i risultati sono arrivati in fretta e con maggiore precisione (basta confrontare le percentuali di assoluzione nei processi nel Regno Unito e in Italia) che negli altri paesi europei: come se il know how accumulato negli anni della lotta al terrorismo rosso e nero fosse tornato utile ed attuale. È stato in questo modo, per esempio, che è stata smantellata per intero la presenza in Italia del Gspc, il Gruppo salafita per la propaganda e il combattimento, nato in Tunisia e fortemente radicato nel nostro Paese (tanto che i tunisini costituiscono da soli quasi la metà del totale dei terroristi islamici condannati nei tribunali della Penisola).
Oggi, dice toccando ferro chi si occupa di queste indagini, «la situazione è sotto controllo». Il che non vuol dire che un singolo fanatico come Mohamed Game - il libico dell’attacco alla caserma Perrucchetti - non possa sbucare dal nulla a realizzare la sua impresa, ma che le «antenne» dei nostri organi di polizia sono abbastanza affinate per cogliere segnali di tutto (o quasi) ciò che di rilevante si muove all’interno delle comunità islamiche sparse per la Penisola. In buona parte di queste comunità i gruppi dirigenti che inizialmente avevano flirtato con gli estremisti si sono spostati su posizioni più moderate, e le comunità sembrano seguirli. Se dovesse sorgere un’opposizione interna, con nuovi aspiranti leader che rilanciassero il verbo della guerra santa, abbiamo i canali per individuarli.
Ma sarà sempre così? È ragionevole ipotizzare che i successi italiani nelle indagini anti-jihad siano figli non solo dell’esperienza accumulatisi nel Dna delle forze di polizia, ma anche della situazione del tutto particolare che l’immigrazione in Italia presenta rispetto agli Stati Uniti, alla Francia o alla Gran Bretagna: la nostra è una immigrazione assai recente, avvenuta in tempi stretti, e in larga parte illegale. Questo, paradossalmente, si è rivelato un vantaggio. Perché la condizione di clandestinità ha limitato la libertà di movimento dei militanti e dei fiancheggiatori, e li ha costretti ad utilizzare per le loro esigenze logistiche - dalla produzione di documenti falsi agli appartamenti alla trasmissione di denaro - canali relativamente facili da individuare e da monitorare. Spesso è stato partendo da questi canali che si è riusciti a ricostruire gli organigrammi. Tutto da vedere è se altrettanto efficaci sarebbero le indagini se dovessero frugare in una massa di cittadini regolari, immigrati di prima o di seconda generazione, con passaporto italiano, apparentemente integrati sul territorio: ma ugualmente disponibili - come dimostrano i casi recenti in Inghilterra e in Usa - alla conversione all’Islam delle bombe.
Certo, anche in uno scenario di cittadinanza «facile» si potrebbe contrastare il terrorismo. Ma questo - spiegano gli esperti - richiederebbe uno sforzo particolare anche alla nostra intelligence, ed in particolare all’Aise, il «servizio» civile cui la riforma ha assegnato per intero lo spionaggio interno.

Sarebbe necessaria una rete di infiltrati e di fonti arruolate all’interno non solo delle moschee ma anche delle università, dei quartieri a rischio, dei centri culturali per cui i nostri 007 forse non sono ancora del tutto pronti. E che necessiterebbe probabilmente anche di nuove leggi.

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