La vispa Teresa ha la ricetta per salvare l'Italia: "Mandate i figli all'oratorio"

Antonio Provasio recita in legnanese. Fa il tutto esaurito nei teatri e ascolti record su Raidue. Perché racconta la vita del cortile, quando non avevamo niente eppure credevamo di avere tutto

La vispa Teresa ha la ricetta 
per salvare l'Italia: 
"Mandate i figli all'oratorio"

Antonio Provasio è nato nel 1962, eppure il boom economico non sa che cosa sia, non l’ha visto. «Sono cresciuto nel cortile, una casa di ringhiera in via Roma, a Legnano. I miei genitori erano operai al cotonificio Cantoni. Appartengo all’ultima generazione di italiani che non hanno avuto il cesso in casa. Per raggiungerlo bisognava scendere una rampa di scale. Ma ci consideravamo privilegiati: era tutto nostro, chiuso a chiave. Le altre 12 o 13 famiglie, per lo più immigrati meridionali, usavano i gabinetti comuni. Nella corte io ero il solo figlio unico. I miei compagni di gioco avevano chi sette, chi otto, chi nove fratelli. Ero anche il solo a far merenda: pane bagnato nell’acquaespolveratodi zucchero. Alle16gli amici mi guardavano con invidia, provavo disagio. Allora mia madre li chiamava e dava una fetta zuccherata anche a loro. Il primo ad arrivare era Fausto, un siciliano di 4 anni, ultimo di otto fratelli. Lo ricordo perché aveva sempre la candela al naso. In un baleno ingoiava pane, moccio, tutto. Nel cortile non c’erano porte chiuse a chiave, a parte quella del nostro cesso. E del resto un ladro che cosa avrebbe potuto rubare? Nella bella stagione, il sabato pomeriggio mio padre mi portava col motorino a fare il bagno nel canale Villoresi, nel senso che mi lavava col sapone nelle rogge. Ero felice».

Il cortile è stato la fortuna di Antonio Provasio: gli ha dato un lavoro, lo ha reso famoso, gli ha riempito la vita. Sono 60anni che la sua compagnia teatrale, I Legnanesi, porta in scena con strepitoso successo questo luogo dimenticato e nei giorni scorsi era impressionante vedere la gente in coda fin dalle 10 del mattino davanti alla cassa del teatro Smeraldo di Milano per assicurarsi uno dei 2.000 posti a sedere, anche perché gli spettacoli cominceranno solo martedì prossimo e proseguiranno fino all’8 febbraio. Ma ancora più impressionante è stato il tutto esaurito del 5, 6 e 7 dicembre al teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, più di mille persone a sera che si sono sorbite raggianti lo spettacolo in un dialetto a loro sconosciuto e alla fine hanno applaudito per quattro minuti senza interruzioni. E il bello è che alla compagnia arrivano richieste da Udine, da Trieste, da Roma, persino da Bari. L’anno scorso I Legnanesi, 22 persone in scena e altre 18 nel retropalco, hanno totalizzato 170.000 spettatori (dati Siae) e 160 recite. In pratica si sono fermati solo nel mese d’agosto. Il loro Regna la rogna, trasmesso a Palcoscenico su Raidue il 14 novembre, è stato visto da 1,1 milioni di teleutenti, con uno share del 12%, che data la fascia oraria, 23.30, lascia sbalorditi. Se poi si considera che i picchi d’ascolto sonostati registrati dall’Auditel in Campania, Lazio, Piemonte e Veneto, la performance ha del miracoloso. Il 2gennaio, stessa ora, si replica.

Se n’era già stupito Mario Soldati: «Rimango esterrefatto, ammirato entusiasta. Pensate: una rivista di tre ore senza un solo doppio senso, e piena di humour vero, di quello buono, lombardo, nella tradizione del Porta: piena di allegria, piena soprattutto di vitalità. Sono i personaggi di Testori in scena, vivi. È una dimostrazione lampante del primato della nostra classe operaia». E Alberto Arbasino, noto per i suoi gusti snob: «Con I Legnanesi per la prima volta il proletariato parla di sé, illustra con efficacia incomparabile i conflitti (drammatici e talvolta ridicoli) tra la vecchiaanima popolare e le alienazioni più moderne». È così dall’8 dicembre1949, da quando Felice Musazzi e Tony Barlocco fondarono la compagnia a Legnano. Ieri correvano ad applaudirla Walter Chiari, Gino Bramieri, Paola Borboni. Oggi Adriano Celentano con la moglie Claudia Mori, Michelle Hunziker, Enzo Iacchetti.

Piace il cortile. Piace quell’Italia di pover crist che non avevano nientemacredevano di avere tutto e si conoscevano faccia per faccia, gioia per gioia, disgrazia per disgrazia. Piace la normalità della famiglia Colombo, protagonista fissa dei copioni, ormai oltre una cinquantina. Piace la ruvida concretezza della Teresa, che era il personaggio incarnato da Musazzi, la casalinga matriarca alla quale oggi presta volto e voce un irresistibile Provasio; l’etilica bonarietà del Giovanni, ul Giuàn, suo marito, interpretato da un Luigi Campisi che nella vita è invece astemio; la sognante fannulloneria della loro figlia Mabilia, nella realtà un attivissimo Enrico Dalceri, l’unico che non fa l’attore professionista e perciò deve dividersi fra il palcoscenico e l’ufficio di responsabile stilistico di una grande casa di moda. È questa l’altra peculiarità dei Legnanesi: tutti i ruoli femminili sono affidati ad attori, comeai tempi di William Shakespeare. «Ma siamo uomini veri, parliamo con voce maschile», ci tiene a precisare Provasio, sposato con Laura, padre di Francesca, 11 anni, e Sofia, 9. «Era il chiodo fisso di Musazzi: “Ricordatevi che siete uomini. Perciò niente smancerie, niente voci in falsetto”. Mi scoccerebbe parecchio se ci scambiassero per travestiti».

Com’è nata la Teresa?
«La levatrice fu don Antonio Airoldi, che oggi ha 90 anni. Una bella sagoma. Nella parrocchia del Redentore, in contrada Legnarello di Legnano, aveva costruito con le proprie mani il teatro Angelicum. Un giorno, mentre era in tenuta da lavoro, saltò sul suo ciclomotore, un Aquilotto, per correre in curia a Milano a ritirare certi permessi. I carabinieri lo fermarono sulla statale del Sempione. Siccome era senza tonaca e senza documenti, non credettero che fosse un prete e lui, spazientito, dopo un po’ di discussioni tirò quattro cazzotti ai militari. Giusto per dare l’idea del tipo... Nella filodrammatica dell’Angelicum recitava Musazzi, un impiegato di 28 anni della Franco Tosi meccanica, reduce dalla guerra di Russia. A quel tempo vigeva una direttiva del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster che vietava di far recitare le ragazze nelle parrocchie. Siccome il pubblico scarseggiava, una sera Musazzi disse al prete: “Don Antoni, par fa’ vegnì la genti in teater gavoeur idonn”, per far venire la gente in teatro ci vogliono le donne. E don Antonio: “Falla tu, allora, la donna”. Così fu».
Lei quando è diventato la Teresa?
«Entrai nella compagnia come ballerino di fila nel 1982. Fino all’anno prima ero stato calciatore nel Legnano in serie C. Musazzi morì nel 1989. Pensavamo che tutto fosse finito. Finché Sandra, la figlia che gli faceva da segretaria, non venne a vedere un mio spettacolo in cui facevo la Maria. La Teresa era un’icona, nessuno osava interpretarla. Eravamo arrivati a 22 repliche. “Perché non ricominciamo?”, mi propose Sandra. Ora siamo una Srl. Come quando vai all’oratorio: se porti il pallone, ti fanno giocare. Ho dovuto comprarmi una compagnia per recitare».
Gli attori sono tutti pagati?
«Sicuro, e bene. Uno spettacolo costa 200.000 euro, ci vogliono almeno 12 mesi per ammortizzare i costi, ma ogni anno la gente ce ne chiede uno nuovo. Le altre compagnie a Milano non tengono il cartellone più di due o tre settimane, noi arriviamo a otto. E potremmo continuare, se non fossimo chiamati in altre parti d’Italia».
Ma che cosa ci capiscono gli italiani del dialetto milanese, anzi legnanese?
«Quando nel 1974 portò Chi vusa pusé... la vaca l’è sua al teatro Sistina di Roma, il tempio di Rugantino e Aggiungi un posto a tavola per intenderci, Musazzi si pose la stessa domanda e pensò bene di italianizzare i dialoghi e il titolo: Chi grida di più... la vacca è sua. Alla fine del primo spettacolo gli piombò nel camerino Luchino Visconti: “Ma lei sbaglia tutto, dovete assolutamente recitare nel vostro dialetto!”, lo rimproverò il grande regista. Fu ripristinato il titolo originale: due settimane di tutto esaurito. I romani uscivano dal Sistina dandosi di gomito: “Che bravi questi francesi!”».
Oltre che di Garinei e Giovannini, il Sistina era anche il tempio di Wanda Osiris.
«E infatti la Mabilia è un remake della Wandissima. La celebre soubrette regalò i suoi gioielli a Tony Barlocco, il primo a interpretarla. Nello spettacolo del 60˚ le dedichiamo un omaggio: Dalceri, che ha curato anche le musiche e i costumi, svolazza in scena fra 2.000 rose rosse indossando quei gioielli».
A 40 anni la Mabilia vive ancora con i suoi. È una bambocciona.
«Il Padoa Schioppa deve pagarci le royalty».
L’archetipo della velina o della concorrente dei reality. I genitori cercano d’accasarla con un benestante. Berlusconi docet: «Signorina, sposi un milionario!».
«Non è un sogno così scandaloso. Il ceto medio ha sempre cercato di maritare le figlie con un ricco che di riflesso faccia star bene tutta la famiglia. Anch’io ho sposato una benestante. Di Busto Arsizio. E dire che i miei mi raccomandavano: “Sposa no una bustocca o una terona”, perché legnanesi e bustocchi sono come cane e gatto. Quando c’è l’amore, il portafoglio pieno non guasta».
La famiglia tradizionale è il nucleo fondante dei vostri spettacoli. Merce svalutata, di questi tempi.
«Non sono d’accordo. Noi, peresempio, ci crediamo tanto. In parrocchia ci sono stati inculcati i valorifondamentali, per fortuna».
Lei non crede che presto avremo famiglie con due padri senza madre e due madri senza padre?
«Io mi auguro e spero proprio di no».
Che differenza c’è fra Antonio Provasio, in arte Teresa, e Wladimiro Guadagno, in arte Vladimir Luxuria?
«Lui ha qualche problema identitario, io no. Sono un maschio e mi piacciono le donne».
Nei momenti di difficoltà i legnanesi si aggrappano alla fede. Siete proprio politicamente scorretti.
«Sì, credono. Si appellano a Dio e alle anime dei defunti. “Signur,guardagiò”, prega la Teresa quando il suo Giovanni è in fin di vita, “e se propi te podi no guarda giò... tirumal su”».
Per chi vota la famiglia Colombo?
«Ha votato tutto il votabile: Dc, Psi, Pci, Forza Italia. Si aspettavano il miracolo, dai partiti. Invece... ».
Più affidabili i preti.
«Don Pedar, 87 anni, è il prototipo. Sordo, malfermo sulle gambe. Ma c’è. Onnipresente. La parrocchia a me ha dato tanto. Fino ai 19 anni ho vissuto lì. Oggi ci mando le mie figlie. Sventurate quelle comunità che non hanno un oratorio. Vogliamo dircelo? Oggi non ci sono più i preti di una volta. La rovina delle parrocchie è la rovina dei nostri figli».
Le sue figlie non messaggiano, non chattano?
«La più grande ha avuto il cellulare solo quest’anno, la piccola neanche parlarne. Non mi va che stiano chiuse in camera a trafficare con telefonini e computer. Noi non liavevamo ed eravamo felici. Perché? Si stava meglio quando si stava peggio. Mi creda, è così, la gente sente che è vero, per questo I Legnanesi fanno il pienone. So di bambine che non vanno a dormire se i genitori non gli hanno prima fatto vedere una videocassetta dei nostri spettacoli. Altro che L’isola dei famosi! C’è nostalgia di pulito. Se gli racconti qualcosa di bello, di sano, di positivo, i ragazzi si appassionano ancora».
Ne è proprio convinto?
«Guardi, due anni fa, dopo uno spettacolo al teatro Nuovo di Milano, tornando a casa in auto ho fatto una manovra azzardata vicino a Porta Venezia. Sono stato affiancato da due vetture cariche di bulli. Con me c’era Alberto Destrieri, che interpreta la Pinetta, non so se ha presente: un metro e 50 in tutto. Ci siamo, mi son detto, qua mi tocca difendermi da solo. Accosto, scendo. E quelli: “La Tereeesa!”. Ragazzi,mavi pare il modo, ho balbettato. Avevo il sudore che mi correva giù per la schiena. Baci e abbracci. Erano appena venuti a vedermi a teatro».
Che cosa le manca della sua infanzia?
«La minestra col lardo della nonna Maria. Mia madre non voleva che la mangiassi: troppo grassa. Alle 18.30 la nonna, che nel cortile abitava al pianterreno, mi chiamava a bassa voce: “Nanin”, piccolino. Lei aveva già finito di cenare. Io entravo di nascosto in casa sua e mi pappavo un piattone in 30 secondi. I bambini d’oggi non sanno che fortuna sia avere i nonni».
Come ha passato il Natale?
«In famiglia. Non è che mia moglie sia una gran cuoca. È una bustocca, gliel’ho detto. Il panettone era la cosa migliore. Ne vado pazzo. Purché sia fatto con l’uvetta e i canditi. Guai se ha la farcitura. Sono per la tradizione anche nei dolci. Purtroppo oggidì cominciano a venderlo già a settembre. Arrivi a Natale che ne hai già mangiati otto la mattina ac olazione. Non lo sopporto. Come le luminarie con tre mesi d’anticipo. Madocina, così non c’è più gusto! Il consumismo ha rovinato tutto. Non vendete il panettone prima del 20 dicembre e vedrete che la vigilia lo compreranno anche a 50 euro».
«Madocina» si può dire?
«È un intercalare abituale a Legnano, quasi una giaculatoria. Ci siamo autoimposti di evitare le trivialità. Una sola volta in scena m’è scappata per sbaglio un’imprecazione fuori copione, c..., e la vuol sapere una cosa? Non ha riso nessuno. Ero più imbarazzato io del pubblico. Venendo qui a teatro ascoltavo Linus a Radio Deejay. Mammia mia, ragazzi! Per noi il massimodella sboccataggine è la Teresache va a confessarsi: “Don Pedar, mi hanno violentata”. “Controla tua volontà?”. “No,cuntra ul comò”».
Chi insegna il dialetto ai bambini d’oggi?
«Nessuno, purtroppo. Noi ci abbiamo provato due anni fa, con 40 uscite nelle scuole. Come accade per tutte le cose che funzionano, non ci hanno più chiamato. Ho chiesto a una classe di Cerro Maggiore: qualcuno di voi conosce una filastrocca in milanese? Ha alzato la mano solo una bambina di colore, che l’ha recitata alla perfezione».
Il napoletano di Eduardo De Filippo, il genovesedi Gilberto Govi e il veneziano di Cesco Baseggio un tempo venivano trasmessi dalla Rai.
«Noi siamo andati in onda solo per merito di Massimo Ferrario, che è di Castellanza e ci chiamò quand’era direttore di Raidue. Da allora tutti hanno pensato che fossimo sponsorizzati dalla Lega. I Comuni governati dalla sinistra ci erano vietati; idem il teatro Coccia di Novara, perché il direttore pendeva da quella parte. Ma quest’estate siamo stati chiamati al Festival dell’Unità a Cremona. Forse l’incantesimo s’è rotto».


Perché le tradizioni sono così importanti?
«Glielo dirò con la frase che da 60anni ripetiamo al pubblico alla fine di ogni nostro spettacolo: “Ricurdevas, genti, che un popolo cal ga minga da memoria, al ga minga da storia”».
(435. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it 

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