«Se Giulio Lolli è un terrorista io sono la regina Elisabetta», esordisce Antonio Petroncini, storico legale dell'ultimo avventuriero, che per dieci anni ha cavalcato il caos libico provocato dalla primavera araba. La procura di Roma con il pm Sergio Colaiocco accusa Lolli di traffico di armi e terrorismo internazionale, ma lui si difende a spada tratta. Davanti al Tribunale del riesame ha protestato: «L'accusa è incredibile. Ho sempre odiato il terrorismo e combattuto contro l'Isis a Sirte».
Il «corsaro» bolognese è stato rispedito in Italia da Tripoli il primo dicembre, dopo due anni di gattabuia nella prigione di Mittiga, l'aeroporto della capitale. Dal rientro a Roma, Lolli è rinchiuso a Regina Coeli, ma rischia il trasferimento nel supercarcere di Nuoro dove sono rinchiusi i terroristi islamici. «Nell'interrogatorio del 23 gennaio ha ribadito di non avere mai fatto parte di organizzazioni terroristiche bensì governative libiche», spiega il suo legale romano, Claudia Serafini. La procura è convinta del contrario, ma Lolli è veramente un Bin Laden italiano? La sua vita sembra un film: nel 2010 fugge a Tunisi rincorso dalle inchieste sulla truffa «Rimini yacht». In pratica vendeva barche di lusso a più acquirenti compresi dei Vip. Quando scoppia la primavera araba spera di trovare rifugio a Tripoli convinto che il regime di Gheddafi sia inossidabile. Lolli arriva in porto al timone del suo yacht, Leon, ma viene arrestato nel lussuoso hotel Rixos della capitale su richiesta italiana via Interpol. Non sarà mai estradato perché scoppia la rivolta contro il regime di Gheddafi. Dopo mesi di carcere infernale, i ribelli lo liberano e lui si unisce all'assalto a Bab al Azizya, la roccaforte del colonnello nella capitale.
Così diventa Thuwar, un rivoluzionario suo malgrado. Il nuovo governo post Gheddafi gli consegna pure un'onorificenza assicurandogli un vitalizio. Lolli non si muove dalla Libia respingendo in tribunale le richieste di estradizione giunte dall'Italia, dove lo attende una condanna di 4 anni e 4 mesi per bancarotta e corruzione. E un'inchiesta per estorsione che sfocerà a breve in processo. Lolli ammette la truffa, ma respinge con forza l'accusa di estorsione.
L'ultimo avventuriero si converte all'Islam diventando il «capitano Karim» e allaccia rapporti con tutti, ma viene pure rapito e tenuto in ostaggio per mesi. Grazie alla sua perizia al timone comincia a fare rotta su Bengasi stritolata dall'assedio del generale Khalifa Haftar, che oggi attacca Tripoli. Lolli giura che le sue missioni erano solo umanitarie per portare generi di prima necessità ed evacuare i feriti.
A Tripoli si insedia il nuovo premier Fayez al Serraj. Lolli non sembra scomporsi più di tanto nel gioco degli specchi del caos libico. E si sposa con una giovane della capitale. Poi si «arruola» in una specie di polizia marittima a Tripoli autorizzata dal ministero dell'Interno. Tutti miliziani sotto il comando di Taha Mohammed al Musrati, che ancora oggi combatte nella capitale contro Haftar nelle fila governative. Il 28 ottobre 2017 la milizia portuale viene smantellata dalla polizia salafita di Rada, forse su input italiano e Lolli finisce dietro le sbarre. A Tripoli lo condannano addirittura all'ergastolo per terrorismo con una discutibile sentenza che non ha alcun valore in Italia. Alla fine viene espulso lo scorso dicembre.
In Italia, però, lo attende l'amara sorpresa delle accuse per terrorismo e traffico di armi. I carabinieri del Reparto operativo speciale sono convinti che Lolli abbia nientemeno che «diretto e finanziato () l'associazione terroristica Majlis Shura Thuwar Bengasi» come «comandante delle Forze rivoluzionarie di Tripoli». L'accusa fa di tutta l'erba un fascio sostenendo che la Shura di Bengasi fosse un'organizzazione terroristica. In realtà si trattava di un cartello di gruppi diversi fra loro, dai Fratelli musulmani ad Ansar al Sharia, che è stata sciolta ed era l'unica organizzazione inserita dall'Onu nella lista nera del terrore. Non a caso i resti dei miliziani che hanno combattuto a Bengasi fino alla capitolazione, oggi sono in prima linea a Tripoli per difendere il governo Serraj contro lo stesso nemico di allora, il generale Haftar. L'avvocato Petroncini ribadisce che «Giulio Lolli non ha mai dichiarato di appartenere alla Shura di Bengasi, ma di essere un Thuwar, avendo preso parte ai moti rivoluzionari che hanno deposto Gheddafi e combattuto l'Isis a Sirte».
La seconda spada di Damocle è il traffico di armi. Il primo maggio 2017 una nave militare dell'operazione Sophia individua il Mephisto, ribattezzato El Mukhtar, al largo di Misurata diretto verso Bengasi con un carico di armi «inclusi lanciarazzi e mine anticarro». Lolli non era a bordo, ma secondo l'accusa è lui la mente dell'operazione perché «aveva la disponibilità dell'imbarcazione». Nell'interrogatorio del 23 gennaio l'indagato ha spiegato che di mestiere faceva il broker da 25 anni. E aveva svolto solo un ruolo di intermediazione per l'acquisto del Mephisto immatricolato in Italia e poi consegnato ai libici con più passaggi di mano. «È da escludere che Lolli utilizzasse il Mephisto in proprio, a titolo personale, per trasportare armi di supporto ai terroristi o che fosse a conoscenza del carico bellico», spiega l'avvocato Petroncini.
Per gli inquirenti l'intensificarsi dei contatti dell'italiano con i libici per il passaggio di proprietà proprio il giorno del fermo in alto mare «rendono evidente che il Lolli era coinvolto nel trasporto d'armi accertato». La difesa evidenzia con una ricostruzione sugli orari di avvistamento ed effettivo abbordaggio dell'imbarcazione alle 6 di sera, che i contatti dell'ultimo avventuriero sono avvenuti prima del sequestro del carico a bordo e non viene minimamente menzionata l'operazione della flotta europea.
Non solo: in giugno, quando la stessa imbarcazione è stata di nuovo intercettata Lolli non ha fatto assolutamente nulla. La nuova battaglia dell'ultimo avventuriero sarà dimostrare la sua innocenza e mantenere la leggenda di una vita da film.
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