Vive in Alto Adige, ha minori in affido

Laces si trova in Alto Adige. Anche Ciardes si trova in Alto Adige. Laces dista da Bolzano 55 chilometri. Ciardes 48. Laces conta 4.870 abitanti. Ciardes 2.328. In entrambi i paesi passa la ferrovia della Val Venosta che collega Merano a Malles, chiusa dallo Stato come ramo secco nel 1990 e riaperta dalla Provincia autonoma di Bolzano cinque anni dopo. In entrambi i paesi l’alloggio che un tempo era del capostazione fu concesso a equo canone dalle Ferrovie dello Stato a propri dipendenti, con una clausola, messa nero su bianco nel contratto d’affitto, che dava loro diritto all’acquisto dell’abitazione.
Sia a Laces che a Ciardes le dimore dei capistazione, al pari della linea ferrata, sono state cedute dal demanio alla Provincia autonoma, che s’è rifiutata di riconoscere quel diritto. I due ferrovieri hanno fatto causa, insieme. E insieme l’hanno persa. Ma il giorno stesso in cui in nome del popolo italiano veniva pronunciata la sentenza, il ferroviere che abita a Laces è stato sfrattato mentre il ferroviere che abita a Ciardes ha potuto riscattare la sua casetta al modico prezzo di 90.000 euro. Non il giorno prima o il giorno dopo. Il giorno stesso. Così deciso in Bolzano il 25 ottobre 2004 dal giudice unico del tribunale. Così stabilito dalla Giunta provinciale di Bolzano con delibera 3828 il 25 ottobre 2004.
Piccolo particolare: il ferroviere di Laces si chiama Giulio Mecarone, il ferroviere di Ciardes si chiama Josef Platzgummer. Altro dettaglio trascurabile: il presidente della Provincia autonoma, sostenuto da una coalizione formata da Svp, Ds, Margherita e Verdi, si chiama Luis Durnwalder ed è uno dei maggiorenti della Südtiroler Volkspartei, il partito popolare sudtirolese che per statuto non accetta fra i propri iscritti gli appartenenti al gruppo linguistico italiano. Volendo metterla sul piano idiomatico, Mecarone ha un’aggravante specifica: benché se ne sia andato mezzo secolo fa dal suo paese natale in provincia di Viterbo, Bagnoregio, continua a parlare come Alberto Sordi, che della suggestiva borgata medievale fu parroco cinematografico, su e giù per il ponte lungo e stretto di Civita in sella al mosquito, nel film Contestazione generale.
Va detto che la Provincia autonoma di Bolzano un’alternativa l’aveva offerta, al ferroviere: un alloggetto con vista sul cimitero di Laces. Talmente ravvicinata, come vista, che Mecarone e i suoi cari dalle finestre avrebbero potuto leggere distintamente i nomi dei defunti sulle lapidi e respirare a pieni polmoni il fumo dei lumini. Ma il capostazione cinquantaduenne, in servizio a Merano, lo ha orgogliosamente rifiutato. Difficile far stare in 80 metri quadrati una moglie, due figli e i ragazzi con disagi familiari che il tribunale dei minori gli dà in affidamento.
Così la scorsa settimana un ufficiale giudiziario venuto da Silandro – appartenente, quando si dice il caso, al gruppo linguistico tedesco – ha bussato alla porta di casa Mecarone nella stazione di Laces con una mazzetta di carte bollate. Il legale della Provincia s’è invece presentato con 8-10 operai, i quali si sono dedicati al cambio della serratura e alla requisizione dei mobili che la famiglia italiana non era riuscita a salvare dallo sgombero forzoso. I Mecarone hanno trovato riparo provvisorio al pianterreno: per un errore di notifica nel precetto di sfratto figuravano solo le stanze al primo piano. Al capostazione è sembrato di rivivere il dramma del padre contadino, un nomade della terra con 10 figli da sfamare che a ogni San Martino veniva cacciato dai latifondisti e doveva peregrinare da un paese all’altro del Lazio in cerca di un tetto.
Siccome alla tristissima scena dello sfratto, ripresa da operatori televisivi e fotografi, assistevano i rappresentanti di Forza Italia, all’infastidito ufficiale giudiziario è scappata un’insolenza: «Andate in piazza! Il posto dell’italiano è in piazza. Quello è il suo posto!». Che, se non altro, attesta come i sudtirolesi sappiano parlare un discreto italiano quando devono offendere gli italiani.
Insomma, vuoi vedere che nelle disavventure del signor Mecarone c’entrano la faziosità partitica, il pregiudizio etnico, le discriminazioni, il separatismo, tutte quelle robe lì? Nessuno osava pensarlo. Senonché, all’indomani dello sfratto eseguito a metà, è stato proprio Durnwalder a legittimare il molesto sospetto, dichiarando al Corriere dell’Alto Adige che il caso «difficilmente potrà essere risolto, sino a quando si manterrà sui binari politici». Un’infelice allusione al capostazione che ha osato deragliare dai binari ferroviari. E che, colpa ancora più grave, ha trovato una paladina nell’onorevole Michaela Biancofiore, pupilla di Silvio Berlusconi. Sul conto della parlamentare azzurra, dotata di risolutezza pari alla sua avvenenza, il presidente della Provincia autonoma di Bolzano aveva espresso in marzo un giudizio offensivo tratto dal peggior repertorio maschilista e aggravato dal contesto in cui era riportato su Repubblica: «“Perfetta se non apre bocca”, ride di cuore Durnwalder, che ha la fama di tombeur de femmes». Pochi giorni prima la deputata aveva aperto bocca: era intervenuta alla Camera in difesa del capostazione italiano con tre figli a carico.
Quando fu assunto dalle Fs?
«Nel 1980, appositamente per l’Alto Adige. I sudtirolesi non volevano fare i ferrovieri per via degli stipendi troppo bassi: poco più di mezzo milione di lire al mese».
Da quanto tempo abita nella casa da cui è stato sfrattato?
«Dal 1991. E prima di me ci abitò per vent’anni mio suocero Gelmino, che era il capostazione di Laces. Le Fs me la concessero a equo canone e il mio collega Platzgummer, capotreno, ottenne quella di Ciardes».
Poi che cos’è accaduto?
«Nel gennaio 2002 si presentano il capo dell’Ispettorato forestale provinciale e un geometra. “Dobbiamo prendere le misure perché qui ci traslochiamo i nostri uffici”, dicono a mia moglie. Lei, spaventata, non li fa entrare. Due mesi dopo ricevo dalla Provincia autonoma la disdetta del contratto d’affitto, che si rinnovava tacitamente ogni quattro anni, e l’ingiunzione a lasciare liberi i locali entro il 31 dicembre».
E lei?
«Forte del contratto, che prevede espressamente “il diritto all’acquisto dell’alloggio” in base a un accordo nazionale stipulato da sindacati, Fs e Metropolis, la società di gestione del patrimonio immobiliare delle Ferrovie, chiedo di riscattare la casa».
Risposta della Provincia?
«Nessuna. Da marzo a settembre l’ho tempestata di telefonate per avere un colloquio. Finalmente l’assessore al patrimonio, Hans Berger della Svp, mi ha ricevuto. “Ne deve parlare col presidente Durnwalder”, ha tagliato corto».
Addirittura.
«Perciò un giorno di ottobre, non ricordo se era il 10 o il 12, io e mia moglie ci siamo messi in fila alle 6 del mattino per essere ricevuti da Durnwalder».
Alle 6 del mattino?
«Lui riceve a quell’ora. Alle 5.30 c’erano già quattro persone in attesa, compresi due sindaci. Venuto il nostro turno, io e mia moglie siamo entrati. Per tutto il tempo del colloquio Durnwalder non ci ha mai guardati in faccia. Ha continuato a scrivere, o a far finta di scrivere. “Conosco la situazione”, ci ha detto. “Sono problemi vostri. L’alloggio ormai è nostro e ci facciamo quel che vogliamo”. Ho ribattuto: possedete un patrimonio di 4,7 miliardi di euro e cacciate di casa una famiglia di sette persone per farci uffici? Non ne avete già anche troppi? Non sappiamo dove andare».
Perché di sette persone?
«Oltre a mia moglie e ai nostri due figli, a quel tempo la casa ospitava tre fratellini di 6, 8 e 10 anni, che ci erano stati mandati dal tribunale dei minori per sottrarli a una situazione di disagio familiare. Una ragazza di 16 anni è ancora con noi in affido».
Torniamo a Durnwalder.
«“Sono problemi vostri”, ha ripetuto. Allora ci rivolgeremo al tribunale, ho risposto. “Fate pure causa: tanto non la vincerete. Arrivederci”, ci ha congedati. Il tutto senza strette di mano, né all’inizio né alla fine del colloquio».
Così lei e Platzgummer avete fatto causa.
«E il tribunale di Bolzano ci ha dato torto, come pronosticato da Durnwalder. Solo che il giorno stesso della sentenza Platzgummer ha ottenuto ciò che voleva: la Provincia autonoma gli ha venduto per 90.000 euro l’alloggio da cui era stato sfrattato».
Perché il tribunale vi ha dato torto?
«Secondo il giudice si tratta di beni demaniali non vendibili e non soggetti a contrattazione».
E allora come ha fatto la Provincia a venderne uno a Platzgummer?
«A me lo viene a chiedere? Io so soltanto che nel mio contratto d’affitto c’è scritto: “Unità immobiliare di proprietà Fs n. 05274/002”. Di proprietà. Più chiaro di così!».
Lei ha presentato ricorso?
«Certo. E la Corte d’appello di Trento, sezione di Bolzano, mi ha dato nuovamente torto. Per cui non m’è rimasto altro da fare che rivolgermi alla Cassazione. Ma chissà dove sarò finito quando arriverà la sentenza definitiva».
Il suo collega Platzgummer che cosa dice?
«Prima della sentenza s’indignava: “È un’ingiustizia!”. Dopo che la Provincia gli ha venduto l’appartamento, s’è dileguato: “Sai, io il mio scopo l’ho raggiunto...”. Sarà un anno che non ci parlo».
Quanto le è costata finora la battaglia giudiziaria?
«In primo grado sono stato condannato a pagare 3.500 euro. In appello altri 3.691. All’avvocato ho dato un acconto di 4.000 euro, ma la parcella si aggirerà sui 10.000. Siccome ho chiamato in causa la Rete ferroviaria italiana, dovrei versare 4.500 euro anche a Rfi: oltre al danno, la beffa. Mi sono rifiutato di pagare e aspetto che mi pignorino il quinto dello stipendio».
Che ammonta a quanto?
«A 1.500 euro mensili, 300 dei quali se ne vanno per la camera di uno dei miei figli, che frequenta l’università a Verona. L’unico sostentamento della famiglia sono io. Mia moglie è maestra, ma la chiamano solo per qualche supplenza».
Di affitto quanto paga?
«Altri 230 euro. Per 114 metri quadrati. L’ex casetta del capostazione mi fu concessa dalle Fs in condizioni disastrose. Ho dovuto costruire l’impianto di riscaldamento, sistemare il tetto perché pioveva dentro, sostituire le finestre, rifare l’impianto elettrico, posare i pavimenti, intonacare le pareti. Ho speso 80 milioni di lire e ci ho lavorato nel tempo libero almeno quattro ore al giorno per un anno intero».
Ma secondo lei perché la Provincia non gliel’ha voluta vendere?
«Perché sono italiano. Loro non sono italiani».
Però in cambio le ha offerto un altro alloggio a Laces.
«Sì, attualmente occupato dall’Ispettorato forestale. Sembra di ballare la quadriglia. L’alloggio non va bene a loro e dovrebbe andar bene a noi? I forestali, che ci lavorano mezza giornata, sono costretti a tenere sempre abbassate le tapparelle che danno sul cimitero, mentre noi ci dovremmo godere lo spettacolo 24 ore su 24? Mi rifiuto culturalmente di portare i miei cari a vivere lì. Persino il giudice della Corte d’appello ha ritenuto quel buco non idoneo per il nostro nucleo familiare e ha ingiunto alla Provincia di trovarcene un altro».
Non s’è rivolto ai sindacati?
«Ero iscritto alla...». (Fruga nel portafoglio alla ricerca della tessera). «No, l’ho stracciata. Cgil, può essere? Sì, mi pare proprio che fosse la Cgil. Sono andato alla sezione di Bolzano, ho chiesto assistenza legale. Mi hanno risposto: “Caso privato. Non è di nostra competenza”».
Ci sarà pure un giudice a Berlino, visto che parliamo di tedeschi.
«Gli unici che mi hanno dato una mano sono stati Concetta Failla e Salvatore Piras di Forza Italia. Lei è una consigliera di circoscrizione e lui il capo ufficio stampa provinciale. Sono arrivato alla Failla per caso, vedendomi citato nel suo blog in Internet. S’è presa a cuore la mia vicenda perché è nata in un alloggio dello scalo ferroviario di Caltagirone, il paese siciliano di don Sturzo, dove suo nonno era capostazione».
Nessuna solidarietà dal gruppo etnico tedesco?
«Sta scherzando? Le dico solo questo: il Dolomiten un mese fa ha lanciato una sottoscrizione per aiutare il sudtirolese Johann Mathà, ex presidente della Pro loco di Andriano, condannato a risarcire 1,8 milioni di euro per un incidente in piscina nel quale rimase paralizzato un ragazzo. Ma sul mio caso non ha scritto una riga. Un lettore ne ha parlato in tedesco sul forum Internet del quotidiano. Il post è stato subito tolto. Dopo una settimana di proteste si sono decisi a rimettere online l’intervento».
Voi del Sud immigrati in Alto Adige vi sentite discriminati?
«Che cosa devo risponderle? Ho il patentino D, che viene dato a chi ha una conoscenza scolastica del tedesco ed è indispensabile per partecipare ai concorsi pubblici. Benché sia ragioniere, mi trovo confinato in fondo alla scala del bilinguismo, al massimo potrei aspirare a fare il becchino o l’usciere».
E adesso?
«L’avvocato della Provincia mi ha anticipato che procederanno subito con un nuovo precetto di sfratto, per cui mi aspetto che tornino da un momento all’altro per buttarci fuori anche dal pianterreno».
Come vivono i suoi figli questa odissea?
«La cosa peggiore è che hanno perso la fiducia nella politica e nella giustizia».
La loro vita qui sarà dura.
«Fino a cinque anni fa per me non lo è stata, mi sentivo perfettamente integrato. Anche oggi credo d’avere solo un problema col potere, cioè con la Svp. La riedizione in chiave democratica dell’unanimismo fascista o nazista, dipende da che parte vuoi vederla».
Direbbe che l’irredentismo e la prima guerra mondiale siano serviti a qualcosa?
«Sì, a dare il potere ai tedeschi. Che curano l’Alto Adige in maniera egregia, niente da dire.

Però risponda lei a una domanda, adesso: è meglio entrare in una città sporca e trovarci un po’ d’umanità o entrare in una città pulita e trovarci solo sepolcri imbiancati?».
(376. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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