di Giordano Bruno Guerri
Spesso chiedere scusa significa ripetere loffesa con qualche variante. È questo il caso dellesercito egiziano, che in novembre ha presentato le sue «scuse» per le vittime provocate dagli scontri tra manifestanti ostili al potere militare e le forze dellordine. Il Consiglio supremo delle forze armate, in un comunicato pubblicato nientemeno che sulla sua pagina Facebook, «esprime il suo rammarico e presenta le sue scuse profonde per la morte da martiri di bambini innocenti dellEgitto durante i recenti avvenimenti di piazza Tahrir». Fossi uno dei genitori di quei bambini, simili scuse dellesercito sarebbero la spinta definitiva a passare alla lotta armata.
E, a proposito di Facebook, che dire del suo fondatore, ora miliardario in dollari Mark Zuckerberg? Dopo una certa operazione poco limpida, e dopo avere subito critiche dai media e dagli stessi utenti, ha chiesto scusa ai suoi ottocento milioni di clienti per avere «fraudolentemente minato la privacy degli utenti con la mira del profitto». In questo caso fra gli utenti ci sono anchio, e lo mando volentieri in quel posto e in quellaltro.
In entrambi i casi citati - come in molti altri citati in questa pagina - si tratta di chiari pentimenti di coccodrillo, di lacrime fasulle. Per il massacro di bambini innocenti non ci sono scuse che tengano, lunica strada percorribile sarebbe la punizione esemplare dei colpevoli, ovvero proprio di chi emette il comunicato. E se Zuckerberg fosse in buona fede, ricco comè, non avrebbe cercato di lucrare ulteriormente in modo fraudolento.
Lumorista inglese Wodehouse diceva che è buona regola non scusarsi mai, perché «la gente come si deve non sa che farsi delle scuse, gli altri se ne approfittano in modo indegno». È un paradosso, ma come molti paradossi non è lontano dal vero. Non ce ne facciamo niente soprattutto delle scuse dei potenti, che sanno tanto di toppa peggiore del buco, di excusatio non petita, di politicamente troppocorretto. È il caso delle scuse porte - in questanno ultrascusatorio - dal magnate australiano Rupert Murdoch, dal satiro francese Dominique Strauss-Khan e, proprio ieri, dallautorevole (si mette sempre autorevole, prima di New York Times) New York Times.
Dicevo politicamente troppocorretto perché già il politicamente corretto puzza di perbenismo un tanto al chilo, di buone maniere per mascherare lodio, di unipocrisia per la quale - quella sì - occorrerebbe chiedere perdono. Il politicamente troppocorretto è conveniente, soprattutto per chi ha immagine e ruoli pubblici: dando segno di umiltà, attira la simpatia dei buoni e dei semplici, ovvero proprio delle vittime predestinate. Inoltre è, spesso, giudiziariamente utile. Infatti, se la pratica dello scusarsi diventa sempre più frequente, vuol dire che conviene.
Come molti ricorderanno, il fenomeno è iniziato quando Giovanni Paolo II si mise a chiedere perdono per gli errori - oh quanto numerosi - commessi dalla Chiesa nel corso di due millenni. Anche se il paragone con i casi citati prima può sembrare audace, serve a capire che le scuse vanno quasi sempre prese con le pinze. Il Papa giustificava gli errori passati attribuendoli «ai tempi»: per cui si riconosceva di avere sbagliato con Galileo Galilei, precisando però che il tragico «errore» avvenne perché quella era la cultura del tempo. Così facendo, più che riconoscere i meriti dello scienziato, si finì per giustificare i suoi persecutori come vittime della cultura dellepoca, mentre Galileo era «colpevole» di sopravanzarla.
Non solo: proprio il cattolicesimo ci insegna che, quando ci si pente e si chiede perdono, ci si deve impegnare a non ricadere nelle stesse colpe. Invece chi, nellambito della Chiesa cattolica, la pensi diversamente dal Papa, viene tuttora messo a tacere o espulso. Per fare solo due esempi recenti basta citare monsignor Lefevre, il vescovo tradizionalista francese, e padre Boff, il teologo della Liberazione brasiliano.
La chiacchierata ci ha portato lontano. Ma era per dire: chi crede alle scuse dellesercito egiziano, di Strauss-Khan, di Murdoch?
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