Viviamo da spiati, basta con la barbarie degli spioni da Ddr

Chi controlla le esistenze altrui sa benissimo che citare dettagli insignificanti serve solo a destare terrore. Ecco tre semplici ragioni per cui questo scempio va bloccato

Viviamo da spiati, 
basta con la barbarie 
degli spioni da Ddr

Quando Milan Kundera era persona sgradi­ta nella Praga degli anni Settanta, i ser­vizi speciali cecoslovac­chi annotavano con scrupolo ogni persona che incontrava, ogni co­sa che diceva, ogni azio­ne che compiva. Fino a cadere nel grottesco: «Il soggetto si è chinato per allacciar­si una scar­pa. La sini­stra ». Era l’oppressivo volto para­noico di un regime che sopravvive­va spiando le vite degli al­tri. Possiamo solo immagi­nare cosa sa­rebbe suc­cesso se gli Stati di polizia dell’Est avessero avuto a dispo­sizione, durante la Guerra fredda, un’ar­ma devastante come quella delle intercetta­zioni. Chi controlla le esistenze altrui sa benis­simo che citare dettagli insignificanti serve a de­stare il terrore.

A far sa­pere che la tua reputa­zione, la tua carriera, i tuoi affetti non ti appar­tengono più, sono nelle mani di qualcuno al so­pra di te: un funziona­rio, un poliziotto, un giudice. Come ha inse­gnato Kundera, anche uno scherzo innocente - una frase scritta su una cartolina a un ami­co, una battuta con il collega al telefono - può costare cara. Troppo. Ma davve­ro è un Paese civile, si chie­de qualcu­no, quello in cui si vive con il rischio di vedere pubblicate le proprie conversazio­ni, anche se non hanno alcun valore penale, an­che se si trat­ta di dettagli insignificanti, anche se sono opinioni private e giudizi personali?

Ma davvero le intercettazio­ni, anche quando ri­guardano un presunto «interesse pubblico», sono utili alla democra­zia perché - come so­stengono i pasdaran del giustizialismo- con­sentono ai cittadini di sapere, giudicare e controllare? Pensiamo di no. Pensiamo che quello non sia un Paese ci­vile, e pensiamo che sia inac­cettabile rendere pubblici i col­loqui privati il cui contenuto non infrange la legge. Dare in pasto all’opinione pubblica in­te­rcettazioni irrilevanti non sa­rà un reato, forse. Di certo è una barbarie. È un barbarie perché colpi­sce chiunque, indiscriminata­mente. Non è vero che le inter­cettazioni mettono a nudo so­lo i vizi dei politici corrotti, dei faccendieri, dei collusi con la mafia.«Chi se ne importa...tan­to i potenti se la cavano sem­pre.

E comunque se lo merita­no. Noi non c’entriamo... ». Le intercettazioni invece travolgo­no tutti, e prima o poi nel trita­carne finisce anche chi con la casta non c’entra nulla, anche chi ha parlato per caso, nel mo­mento sbagliato, con la perso­na sbagliata. Anche chi casual­mente è stato nominato da gente che non ha mai visto o in­­contrato, con la quale non ha nulla da spartire,come può ca­pitare­alla segretaria di un qual­siasi uomo d’affari, o all’amica di una ragazza invitata a cena da qualcuno sotto controllo... O come può capitare a un incol­pevole giornalista del Corriere della sera , tirato in ballo ieri dal suo stesso giornale nell’ambi­to dell’inchiesta sulla cosiddet­ta P4 perché citato nelle carte dai giudici, e che non ha potu­to far altro che precisare nelle stesse pagine sulle quali scrive che «Non conosco Bisignani, non ci ho mai parlato... ma no­nostante questo sono apparso nell’elenco di quelli che com­porrebbero la sua rete...

Non è illegale parlare con questa per­sona. Ed è davvero sorpren­dente che si venga arruolati fra i suoi contatti senza averlo mai visto in faccia né averci scam­biato una parola». È «sorpren­dente » o non, addirittura, cri­minale? Il fango ormai s’infil­tra anche nella redazione del foglio più liberale e democrati­co e autorevole del giornali­smo italiano. I colleghi del Cor­riere per tutto il giorno hanno inviato messaggi di solidarietà al cronista messo alla gogna. Finché le intercettazioni tocca­no la vita degli altri si tratta di libero giornalismo, quando toccano qualcuno in casa tua è fango, è violazione della pri­vacy, è una barbarie. È una barbarie perché non è vero, come sostiene chi difen­de il principio delle intercetta­zioni a tappeto, che chi non ha fatto nulla di male non ha nulla da temere.

«Chi ha la coscien­za a posto non rischia niente » è un luogo comune, o meglio un’ipocrisia, che suona bene in bocca a chi non è mai stato intercettato. La maggior parte delle conversazioni private tra due politici, anche i più irre­prensibili, se rese pubbliche so­n­o in grado di far cadere un go­verno o distruggere la carriera di più di un parlamentare. Qua­le terremoto colpirebbe la so­cietà italiana se domani venis­sero pubblicate le trascrizioni delle telefonate - pur senza contenere alcunché di crimi­nale o di immorale - tra Carlo De Benedetti ed Ezio Mauro, a esempio? È sufficiente un’illa­zione, una battuta fuori posto, un’allusione, un giudizio per­sonale spacciato per un fatto, una notizia interpretabile co­me un reato, e il danno è fatto. Così come la maggior parte del­le conversazioni private di un marito con un amico o di una moglie con la collega d’ufficio, anche se penalmente irrilevan­ti e anche se di pubblico inte­resse limitatamente alla vita di un’azienda o di un condomi­nio, possono sfasciare una fa­miglia, una comunità.

Se do­vessi dire a mia moglie, al tele­fono, che il direttore del mio giornale è un incapace, o il mio editore un puttaniere - cose ir­rilevanti penalmente e persi­no moralmente - , una volta che quelle affermazioni fosse­ro rese pubbliche avrei la car­riera stroncata. Eppure ho tut­to il diritto di confidare i miei dubbi, di sfogarmi con chi mi sta vicino, senza per questo es­sere travolto dall’ignominia. Anche chi non ha commesso reati né peccati in questo Pae­se rischia di dormire sonni po­co tranquilli. È accettabile que­sto? Si dice che potrebbero es­sere telefonate utili, «comun­que », per capire il clima, l’am­biente in cui si muovono i per­sonaggi coinvolti in una deter­minata inchiesta... Humus o non piuttosto fumus -persecu­tionis naturalmente - ? Ed è una barbarie, infine, per­ché chi difende la pubblicazio­ne indiscriminata delle inter­cettazioni (oggi però, mentre al governo c’è un nemico, do­mani, quando ci saranno gli amici, chissà... ) aspira a instau­rare una sorta di pericolosissi­mo Stato etico, in cui si vuole perseguire non- giustamente, ci mancherebbe - l’illegalità, e neppure l’immoralità,cosa sul­la quale già si può discutere.

Ma la libertà. La libertà di dire ciò che si pensa, a chi si vuole, come si vuole: scherzando, esa­gerando, spettegolando persi­no. Si chiama libertà di parola e di opinione. Intoccabile e in­violabile.

Esattamente il princi­pio su cui si basa la differenza tra uno Stato democratico e uno di polizia. Tra il sogno di libertà per il quale Milan Kun­dera si è giocato la propria esi­stenza e l’ossessione paranoi­ca di chi vuole controllare le vi­te. Degli altri.

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