"Voglio fare l’attore. Ho la faccia giusta per recitare nel ruolo del boss"

Il romanziere: "Sono stufo del cliché di esperto di terrorismo Ho scritto di tutto. E adesso racconto il vostro Rinascimento"

"Voglio fare l’attore. Ho la faccia giusta 
per recitare nel ruolo del boss"

«Lei è uno scrittore famoso in tutto il mondo. Ma questo non l’ha messa al riparo dalla tirannia di un editore che la costringe a dare interviste alle 9 e un quarto del mattino», gli dico mentre ci arrotoliamo le maniche della camicia, seduti uno di fronte all’altro nella saletta al primo piano del grande albergo milanese. Il fornaio all’angolo non ha ancora tirato su la saracinesca, ma fa già caldo come nel Kalimantan Tengah. Salman Rushdie sorride, imperturbabile, con la sua faccia da sacrista un po’ perverso. «Vengo da un paese caldo. Il caldo mi piace. Quanto all’orario, convengo con lei. Ma alla tirannia degli editori non sfugge nessuno».
Sessantadue anni (fra un mese), quattro mogli e altrettanti divorzi, lo scrittore anglo-indiano è in Italia per l’uscita del suo ultimo romanzo: L’incantatrice di Firenze (Mondadori, 384 pagine, 20 euro). Grande affresco di ambientazione rinascimentale che rende omaggio a una Firenze inedita e meravigliosa, al tempo dei Medici e di Machiavelli, e all’India dell’imperatore mogol Akbar il Grande.
Tema fascinoso in cui, ovviamente, non poteva mancare una enigmatica principessa. Ed ecco Qara Koz, «Madama Occhi Neri».

Ma è così fitta di minuziosi riferimenti storici, la trama, da spaventare i già rari frequentatori di librerie, non crede?

«L’accoglienza che il libro ha avuto, nei Paesi in cui è già stato pubblicato, suggerisce che c’è ancora gente interessata, a un libro colto. Io l’ho scritto perché ero affascinato da questo argomento. Sono stato a Firenze da giovane, a vent’anni. Studiavo Storia. E uno dei piaceri nello scrivere questo libro è stato rituffarmi nello studio di un periodo storico particolarmente affascinante. Non so che accoglienza avrà il libro in Italia. Naturalmente mi auguro che sia buona. Ma insomma, sono particolarmente curioso. Proprio perché la storia riguarda ampiamente l’Italia non vedevo l’ora che il libro fosse stampato anche qui».

Una sorta di fiction storica ambientata fra due Rinascimenti: quello italiano e quello, meno conosciuto, di un’India che sotto la dinastia Mogul conosce una straordinaria fioritura filosofica e artistica...
«L’interesse per la fiction storica nasce secondo me da una sorta di rifiuto per le vicende del mondo contemporaneo: vicende così oscure, spiacevoli, brutte, che la gente si rifugia nel passato. C’è brutalità anche nel passato, s’intende. Così come non bisogna idealizzare troppo il Rinascimento. Io almeno non l’ho fatto, cercando semmai di attenermi quanto più possibile alla realtà».

Il 19 giugno prossimo lei compirà 62 anni. La inquieta l’ombra della vecchiaia?
«Intanto spero proprio di viverla, una vecchiaia; anche se, devo dire, non è che sia ansioso di arrivarci. Il fatto è che quando raggiungi una certa età ti rendi conto che il tempo che ti resta per il lavoro è un tempo definito. Il che significa che c’è un numero limitato di libri che potrai scrivere. Sai che non ne potrai scrivere cento, come pensavi fosse possibile da giovane. Quindi l’importante è concentrarsi su quelli giusti, quelli che davvero vuoi scrivere».

In che rapporti è col trascendente?

«Continuo a non credere che ci sia qualcosa dopo la nostra morte. Così cerco di carpire il meglio della vita, gustandola giorno per giorno».

Si dice che la fine del suo ultimo matrimonio ha rischiato di compromettere la stesura dell’«Incantatrice». È vero?
«Diciamo che è una descrizione troppo drammatica. No, non è vero. E poi io sono uno scrittore disciplinato. È difficile che qualcosa mi distragga davvero. Io, tranne al mattino presto, scrivo tutto il giorno».

Una specie di condanna?

«No, un’ossessione».

I «Versi satanici» sono di vent’anni fa. Eppure il suo nome continua ad essere legato a quella stagione: la fatwa di Khomeini, i suoi dieci anni di vita blindata. Però quella condanna a morte, e le polemiche che seguirono, le diedero una notorietà internazionale che molti le hanno invidiato.

«Oh, quella storia attirò certamente una maggiore attenzione sulla mia persona, questo è evidente. Ma il mio lavoro era popolare anche prima, e ho avuto successo anche dopo, indipendentemente da quella vicenda. È da allora che cerco di scrollarmi di dosso il cliché di esperto di terrorismo. È davvero frustrante, creda. Negli ultimi vent’anni ho scritto un libro sull’India contemporanea, uno sul periodo islamico in Spagna, uno sul rock and roll, uno su New York, un altro sul Kashmir e uno sul sedicesimo secolo. Insomma, direi che c’è molto altro di cui parlare».

L’attentato alle Torri gemelle, Osama Bin Laden, la guerra in Afghanistan e in Irak. Sono queste, tuttavia, le storie che ci hanno fatto compagnia ultimamente.
«C’è un problema di fanatismo, è vero. Ma riguarda solo una percentuale trascurabile di persone nel mondo musulmano. Guardi le recenti elezioni in Pakistan. Solo il 2 per cento della popolazione ha votato per i partiti islamici. Il 98 per cento si è espresso a favore delle formazioni laiche. La battaglia tra fanatismo e apertura mentale c’è sempre stata, in tutte le epoche, come dico anche in quest’ultimo libro. Ma non possiamo permettere che il terrorismo diventi l’unico tema di conversazione, facendoci dimenticare la bellezza della vita».

Lei pare avere un debole per il cinema. Nel 2001 interpretò se stesso nel «Diario di Bridget Jones». Quest’anno sta adattando per il cinema «I figli della mezzanotte». In mezzo ci sono state un altro paio di esperienze. A quando, con la faccia che si ritrova, un ruolo da protagonista?
«Già, me lo domando anch’io.

Anzi, se conosce un produttore e vuol mettere una parola buona... Secondo me ho la faccia giusta per interpretare il ruolo di un boss della mafia. Del resto, Gore Vidal ha interpretato il ruolo del cattivo in un film che si chiamava Gattaca. Se lo ha fatto lui...».

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