da Bologna
Come tutti i grandi, i grandi attori non si prendono sul serio. Così il newyorkese Ben Gazzara sconcerta chi scambia i suoi personaggi per il loro interprete. Lui non è serioso o involuto: ride dei propri errori e dei propri guadagni, non troppo alti per aver lavorato a Hollywood e a Cinecittà (ha una casa in Umbria) con registi come Preminger e Monicelli, Ferreri e von Trier, Festa Campanile e Bogdanovich. Al grosso pubblico Gazzara è noto per essere stato cardinale (Casaroli) e santo (don Bosco) in tv, ma i suoi grandi ruoli sono stati da cattivo al cinema (Un uomo sbagliato, Risate di gioia, Dogville); se proprio non faceva del male a qualcun altro, lo faceva a stesso: da alcolizzato (Storie di ordinaria follia); da biscazziere e gestore di bordello per militari a Singapore in licenza Vietnam (Saint Jack); comunque come persona tormentata (i film interpretati per l'amico John Cassavetes). Il Festival del cinema ritrovato sta proponendo alcuni suoi film restaurati (Un uomo sbagliato di Jack Garfein, il primo dove fu protagonista, del 1957; Anatomia di un omicidio di Otto Preminger), più uno cui Gazzara non partecipò, ma al quale è legato: Volti di Cassavetes.
Signor Gazzara, lei passa per l'alter ego di Cassavetes...
«Sa chi era il regista caro a Cassavetes? Frank Capra, perché girava film pieni d'amore. Cassavetes impressionava molta pellicola e poi passava otto mesi per montarla, dando molta libertà agli attori».
Fra i suoi registi, chi è l'anti-Cassavetes?
«Ferreri. Se avesse potuto, non avrebbe nemmeno messo la pellicola! E diceva sempre buona la prima. Non parlava mai di sentimenti, non gli interessavano, badava solo alle immagini e odiava la locuzione film d'auteur».
Lei ha fatto poca regia, soprattutto in tv, come due episodi del Tenente Colombo, con Peter Falk, altro attore di Cassavetes.
«Mi manca la pazienza per trovare un soggetto, scrivere la sceneggiatura, convincere un produttore, scegliere gli attori. Ci metterei sei anni ogni volta».
Un regista italiano con cui avrebbe lavorato?
«Federico Fellini, se si fosse comportato come con Marcello Mastroianni. Con gli altri era meno gentile».
Un regista italiano vivente con cui lavorerebbe?
«Il cinema italiano ha avuto anche Germi, Pasolini, De Sica, Antonioni, Visconti, Petri. Ora chi c'è?».
Nel 1960 lei girò Risate di gioia di Monicelli, con la Magnani e Totò...
«...Totò - si diceva - era quasi cieco, ma ci vedeva benissimo quando doveva prendere posto sulla scena. Arrivai certo d'essere un attore completo. Davanti a lui e alla Magnani vidi che mi sbagliavo».
Con chi avrebbe recitato e non ha potuto farlo?
«Gary Cooper. Gli attori non hanno quel fascino».
Cooper recita composto. Oggi gli attori gesticolano.
«E fanno schifo».
Lei cominciò in teatro. Col cinema c'è molta differenza?
«Meno che una volta: a teatro non si declama più. Il teatro però insegna a imparare a memoria i copioni».
Mentre recitando per il cinema...
«...i tecnici ti applaudono se rammenti una scena di cinque minuti! A teatro ricordare tre ore di spettacolo è normale!».
Quando ha deciso di diventare attore?
«A dodici anni. Volevo essere applaudito e ci riuscii. La mia vita sarebbe stata quella».
Rimpianti?
«Aver rifiutato Guerra e pace di King Vidor».
Perché lo fece?
«Perché ero stronzo».