Cultura e Spettacoli

Volete un libro-culto? Allora leggetevi La Ville de Mirmont

Ha tutte le carte per diventare un «libro di culto», o per dirla alla francese, visto che il tizio è francese, un livre de chevet. Fin dal contorno e dal condimento: fu pubblicato nel 1914, poco prima che il tipo morisse «nella trincea di prima linea, dietro lo sbarramento dei cavalli di frisia, là dove si erigono gli inestricabili intrecci di filo spinato», falcidiato sul fronte di Verneuil da una mitraglia tedesca. Nonostante fosse miope, il tipo decise di arruolarsi a tutti i costi, colto da fatale istinto eroico; il libro in questione è il primo e l’unico che pubblicò in vita. C’è poi da mettere nel cesto l’età: la Francia va matta per gli enfant prodige, il nostro eroe muore a 28 anni (nacque a Bordeax nel 1886), un’età buona per la santificazione artistica, che tu ti chiami James Dean, Jim Morrison e Arthur Rimbaud è lo stesso. Poi, soprattutto, c’è il libro, esile, fragrante e svagato. S’intitola Le domeniche di Jean Dézert (Excelsior 1881, pagg. 124, euro 12,50), la storia di un «rassegnato» che abita in un angusto appartamento il cui «unico tratto originale \ è il soffitto basso». Jean fa il funzionario, ma «il lavoro non occupa affatto i suoi pensieri», fa una vita «in apparenza del tutto ordinaria». Il tipo «non è ambizioso» e «ha fatto - senza fretta - il giro dei suoi possedimenti e perduto ogni illusione sull’ampiezza del suo giardino, la fertilità delle sue aiuole e l’attrattiva dei suoi panorami. Si è messo il cuore in pace, e quando sarà stanco di sputare nella vasca per distrarsi passeggerà, le mani in tasca, lungo le aiuole, senza occuparsi d’altro né avere cattivi pensieri». Questo Jean - papale controfigura dell’autore - è l’antidoto all’inetto novecentesco, la sua rassegnazione non ha nessun giubbotto kafkiano, nello stagno non si ammira il volto di Zeno. Jean è un pazzo, uno svitato, un tipo vampirizzato dalla noia e che dalla noia fa scaturire la fontana del sogno e del nonsenso, è uno che allo zoo «se ne va tutto solo a contemplare gli alligatori, che nelle loro vasche di cemento piene di acqua tiepida sognano gambe lucenti di giovani nere, che varcano il guado al chiaro di luna». Jean s’innamora sbadatamente - e svogliatamente - di Elvire, una graziosa adolescente, e quando tutto, inaspettatamente, va come dovrebbe, con fidanzamento doc e culmine matrimoniale, esplode il patatrac, la fine, proprio sul desco dell’oratoria dell’amante svalvolato: «Secoli di noia, Elvire, secoli di ufficio, si infiammano dinnanzi alla fantasia che tu rappresenti per il mio animo di impiegato ministeriale». Non resta, canonicamente, che distruggersi, prima con la vita dissoluta, poi con gli alcolici, infine con la morte. Anche il suicidio si muta in palcoscenico osceno e grottesco, e «anche quello, un suicidio, gli sembrava una cosa inutile, sapendosi di natura intercambiabile nella folla e incapace di morire del tutto». Stop, il libro è finito, andate in pace.
Il romanzetto lo leggete in un pomeriggio corto, è premiato, per ragioni commerciali, da una bandella esplicativa in cui Michel Hoellebecq urla ai quattro cantoni che «Jean Dézert è come un fratello per me». Tra l’altro, non si capisce perché: Jean è molto più divertente dei noiosi factotum di Hoellebecq, che semmai sono imparentati alla lontana con i reietti di Albert Camus. Dopo tutto, Jean Dézert potrebbe essere il nonno del Favoloso mondo di Amélie e il nipote dell’Alice di Lewis Carroll; letterariamente parlando Jean Dézert, come modi, vezzi e struttura romanzesca autistica anticipa gli esprimenti di Georges Perec e di Queneau (la sua creatura più raggiante, Zazie nel metrò), di certo va a braccetto con altri tipici e simili «libri di culto» (tutti scritti da gente che aveva fretta di morire), Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet, ma soprattutto Il grande Meaulnes di Alain-Fournier, che pare il gemello siamese dell’inventore di Jean Dézert (data di nascita e morte coincidono).
L’inventore, appunto. Ha lo stesso ceffo di Jean Dézert, è il grande disadattato delle lettere francesi, si chiama come lui, con un po’ di trippa in fondo: Jean de La Ville de Mirmont. Il quale aveva un amico - che poi sarebbe stato il suo santo in terra quando Jean era in paradiso - di nome François Mauriac, che ha curato l’opera sua e che ci descrive Jean, nel gustoso testo che introduce il romanzetto, come un genio bambino, un Dioniso impedito, un Peter Pan senza l’isola e i bimbi pirati: «questo ragazzone di vent’anni dalla pelle scura, dallo sguardo acceso e dolce in un viso rotondo e pulito, incorniciato da capelli neri come ali di corvo, sembrava uno di quei piccoli in cui gli angeli scorgono il volto del Padre. I bambini lo avevano adottato non come un adulto, ma come un pari capace di comprendere i loro segreti». Integerrimo sognatore, Jean (de La Ville o Dézert è uguale) era uno scrittore integralista, «sebbene sperasse di scrivere delle belle poesie, avrebbe preferito morire piuttosto che abbassarsi a intrallazzare».

Buon consiglio per i lirici nostrani: Mauriac curò la postuma opera poetica di Jean, facendo pubblicare nel 1920 L’Horizon chimérique, che pare la cosa più bella.

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