Una volta il tempo faceva i capricci E oggi? Li fa ancora

Leggendo la Cronica del Villani (libro X, tomo II, pag. 179) trovo una notizia che - con buona pace dei guru dell’ambientalismo - ho il piacere di inviarle. Bizze ed anomalie del tempo e delle stagioni, da che mondo è mondo, si sono sempre avvicendate con la norma; non certo per colpa di quel corpuscolo infinitesimale che, nei confronti dell’universo, è non solo l’uomo ma l’umanità nel suo complesso. «Nel detto anno 1323, dì 26 d’ottobre, fu delle maggiori fortune di vento a greco e tramontana con neve che si ricordasse per niuno che allora vivesse; e fece maggiori pericoli in mare di rompere navi e galee \ in più parti del mondo, specialmente nel golfo di Vinegia; e somigliante fue in terra, che in più parti divelse grandissimi alberi, e ruppene innumerabile quantità, e molte case fece cadere in Toscana, onde più genti ne moriro...». Nel XIV secolo l’effetto serra non esisteva perché nessuno l’aveva ancora inventato; l’uomo non usava concimi chimici, non produceva gas di scarico e inquinava solo secondo natura; le stagioni però erano, a volte, pazze anche allora. Altri inverni terribilmente freddi sono stati quelli del 1232-33, del 1787-88 e del 1788-89 (gelo, carestia e fame hanno se non determinato, certamente contribuito all’evolversi rapido della rivoluzione francese). Ricordo di aver letto di un anno eccezionalmente caldo nel XVI o XVII secolo; pare che, in Germania, nel mese di febbraio fossero già fiorite le piante da frutto.
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Di testimonianze dirette che riportano i capricci (una volta si chiamavano così, capricci) del tempo nel corso dei secoli ce n’è da riempire le ventidue stanze del villone di quella lenza di Al Gore, gentile lettrice. E parliamo di nevicate in maggio o di solleoni in febbraio. Che poi i cambiamenti climatici, l’alternarsi di periodi caldi con periodi freddi siano la norma, è un dato di fatto che nessuno ha mai messo né mette in discussione. Per non andare troppo indietro nel tempo, un migliaio di anni fa Islanda e Groenlandia erano zone temperate, dove si coltivava la vite. E non certo per colpa delle industrie, degli aerei, delle automobili o dei termosifoni, tra il Sei e il Settecento l’Europa fu soggetta a una piccola era glaciale, con diminuzione media delle temperature attorno ai cinque gradi. Che il clima cambi è dunque un fatto naturale e la grande truffa scientifica, la presa per i fondelli dell’ambientalismo e della sua religione è l’addebitare quell’immane processo cosmico alle attività umane e ai modelli di sviluppo non «sostenibili» e pertanto non «consapevoli». Per aggiungere il danno alla beffa, l’ambientalismo catastrofico e terrorista vorrebbe inoltre che fosse l’uomo a pagare il conto provvedendo a botte di migliaia di miliardi di dollari a imbrigliare le forze cosmiche impedendo che facciano il loro corso. Cose da pazzi.
Che poi, se davvero il ciclo climatico si indirizzasse al caldo (nessuno può dire con certezza se si prospetta un riscaldamento o un raffreddamento globale), che male ci sarebbe? È durante i periodi interglaciali che l’umanità pigiò sull’acceleratore del progresso e del conseguente benessere. Le prime forme di civiltà sorsero in una Mesopotamia canicolare, si svilupparono in un Egitto torrido e si affinarono in una Grecia dove estate e inverno si viveva all’aperto vestiti di panni assai leggeri. L’aumento delle temperature renderebbe ancor più aridi i deserti, se ciò fosse possibile, ma convertirebbero all’agricoltura estensioni sterminate di tundre e di steppe.

Consentirebbero un colossale risparmio di energia - e non si parla del solo riscaldamento domestico - ciò che significa meno inquinamento atmosferico, ché questo è il vero problema, altro che l’effetto serra o il fantomatico buco nell’ozono. Insomma, sarebbe sempre «bella stagione»: vuol mettere, gentile lettrice?

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