Il vulcano della Farnesina

La politica estera oggi è un campo magnetico in attività permanente, un vulcano in eruzione, una forza che contrariamente a tutte le convinzioni del passato e anche dei media che l’hanno relegata in secondo piano per decenni, è capace di portare la gente in piazza e di far cadere governi. L’Italia deve attrezzarsi a questa nuova evenienza, nata con la guerra terrorista contro l’Occidente, con la continua esplosione di bombe e di guerre, con la feroce contrapposizione di idee che suscitano passioni, mettono in campo menzogne e pregiudizi. Il provincialismo è ormai vietato, lo zig zag non paga, l’ignoranza è proibita. La politica estera è ormai l’anima di ogni Paese, dei suoi rapporti e della sua immagine di se stesso e nel mondo, e certo non è un caso se dopo una tanto cocente discussione sull’economia, pure il Paese fronteggia una crisi in politica estera: essa infatti, oggi, è quella cui va il compito di realizzare sia i principi che gli interessi primari del Paese; espone la nostra visione del mondo, ed è per questo che l’attuale crisi è molto significativa, e molto impegnativo è il modo in cui ne usciremo.
Per un nuovo governo, non sono in ballo soltanto le scelte di Follini o di Casini, e tantomeno il governo di Romano Prodi è caduto solo a causa di due estremisti pazzoidi. Niente affatto. Dietro di loro c’era una grande piazza, un’incertezza concettuale di fondo, un’egemonia culturale e politica di un gruppo intellettuale ancora fortissimo in Italia, quello dell’antiamericanismo.
La scelta di cultura e di appartenenza legata alla politica estera vibra nell’aria come tema fondamentale del nostro tempo da ben prima che questo governo nascesse: la micidiale ondata di odio antioccidentale islamista, la formazione e la messa in campo di autentici eserciti terroristi, l’odio per Israele, la questione irachena e quella afgana, la questione iraniana, dopo il primo voto che aveva messo la maggioranza in scacco sulla politica internazionale sono di nuovo, e saranno ancora e ancora, un tema centrale su cui misureremo le nostre scelte politiche. La presenza di basi militari come a Vicenza, un altro ritiro o invio delle nostre truppe nel continuo dispiegarsi, farsi e disfarsi della lotta al terrorismo che spunta e prolifica in varie parti del Globo, lo schieramento all’Onu e nel suo consiglio di sicurezza di cui da gennaio l’Italia è membro per due anni, il ripensamento di organismi internazionali come la Nato, il rapporto con le Ngo, forza sempre più rilevante e non costantemente di buon consiglio, un ulteriore passo sulla questione iraniana, saranno per anni il necessario catalizzatore, dall’aula parlamentare alla piazza, della domanda basilare: qual è la nostra politica estera, quale la nostra disponibilità a far parte, o meno, del campo occidentale, o di qua, o di là? Non ci saranno sconti, non si tratterà di sfumature. Ho sentito con le mie orecchie, in un dibattito alla trasmissione di Giuliano Ferrara Otto e mezzo, Franco Giordano ripetere, sinceramente stupito dell’idea che gli Usa possano chiederci più aiuto in una prossima possibile insorgenza di ulteriore terrorismo in Afghanistan, che il problema non esiste perché in ogni caso la nostra Costituzione ci vieta la guerra, meglio morti che belligeranti, meglio sparire che difendersi. È una concezione del mondo sincera, diffusa, e che mette in piazza decine di migliaia di persone che desiderano semplicemente la pace e sperano, alas!, che basti dirlo per ottenerla, e quelli che ritengono Bush una bestia umana e Israele un Paese di apartheid. Il pacifismo è parte integrante di una visione del mondo con salde radici in Italia: esso ritiene la guerra, qualsiasi guerra, estranea all’idea stessa di democrazia.
Invece la guerra è odiosa, ma la difesa è sacrosanta e può essere, in particolari circostanze, evidente parte di un pensiero democratico, che mette al centro i bisogni dei cittadini: sembra tanto semplice. Alexis de Tocqueville dice, se mi si consente di riassumerne un pensiero, che quando un Paese democratico deve difendersi dai nemici, proprio a causa delle sue caratteristiche democratiche non lo fa volentieri, non lo fa bene, ma poi è in grado di disporre di magnifiche e differenziate risorse, molto più di un nemico che non possieda l’arma della democrazia; organizzandole, mobilitandole, migliora e vince.
Ma difendersi, perché questo è il tema, richiede una sincerità di intenti, una politica di alleanze e una chiarezza ideale enorme di fronte alle attuali sfide della politica internazionale. Non basta certo, anche se è necessario, il desiderio di non apparire inaffidabili di fronte agli Stati Uniti, e di far parte di uno schieramento onorevole e anche conveniente. Quello che occorre è costruire la convinzione, l’integrità e chiarezza di intenti. Insomma, una cultura della politica internazionale. È urgente.
Prendiamo gli ultimi eventi: l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, la Aiea, ha riportato giovedì cattivi risultati per quanto riguarda la preparazione delle strutture atomiche in Iran: essa non è stata sospesa secondo le richieste della Commissione di Sicurezza, nei 60 giorni concessi, e anzi Teheran ha espanso gli sforzi fino a costruire 1000 centrifughe e portando circa 9 tonnellate di provviste di alimentazione gassosa nelle strutture di Natanz per attuare l’arricchimento. Gli ufficiali iraniani hanno informato che essi espanderanno le centrifughe e raggiungeranno la cifra di 3000 in maggio. Il reattore di Arak e gli impianti di produzione di acqua pesante sono sempre in costruzione, contro la risoluzione del Consiglio di Sicurezza. L’Aiea si dichiara «incapace... di verificare ulteriormente i passati progressi del programma iraniano», ma il presidente Ahmadinejad ha dichiarato che «è preferibile per l’Iran fermare qualsiasi altra attività per i prossimi dieci anni e concentrarsi sul nucleare». Cosa abbiamo intenzione di fare di fronte a questa sfida? Il problema include visione e interessi; l’Italia, seconda in questo solo alla Germania che investe cinque miliardi e mezzo di dollari nelle garanzie per il commercio con l’Iran, ne investe, leggiamo, quattro e mezzo.
Altre decisioni molto importanti riguardano il nostro atteggiamento verso la questione libanese, sempre minacciata dalla scalata al potere degli hezbollah e del loro riarmo, che sembra essere stato completato nonostante la presenza dell’Unifil. Se non stiamo scherzando nel nostro intento di favorire la pace, si tratta o di rafforzare la missione con l’intento di intervenire sul riarmo veloce e certo fatale degli hezbollah, o di denunciare la nostra sconfitta e trarne le conseguenze. La Siria, che propone a Israele incontri di pace, pure incrementa in questi giorni la presenza militare sul confine israeliano e stringe rapporti sempre più solidi con l’Iran di Ahmadinejad mentre seguita a ospitare a Damasco la gran parte delle organizzazioni terroristiche che agiscono poi in Irak e in Israele. Anche là si tratta di fronteggiare questa essenziale problematica di politica estera. Così, anche con la nuova sfida del prossimo governo di coalizione palestinese: Hamas nell’accettare di collaborare con Fatah ha riannunciato la sua intenzione di non riconoscere Israele. Questo, mentre nuovi attacchi di terrorismo cercano di raggiungere i cittadini dello Stato ebraico e mentre si accumulano a Gaza missili terra aria e armi procurate dalle varie organizzazioni terroriste. Che fare? Fingere che i peggiori elementi radicali siano stati battuti? Oppure tener duro spingendo perché il Quartetto tenga le sue posizioni? Sarà dura per qualsiasi governo prendere queste decisioni e tante altre, sarà una sfida quotidiana su cui può infrangersi qualsiasi accordo fragile, qualsiasi compromesso.

E non si creda: anche il campo filo occidentale deve pensare, elaborare, sostenere con profondità e senza nessun secondo fine le sue posizioni. Prima ancora di essere amici degli Stati Uniti, occorre essere amici di se stessi, di una propria integra politica estera.

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