Roma Da Walter Veltroni tutti, a questo punto, si aspettavano una qualche apertura. Toni concilianti e una mano tesa ai colleghi travolti dalla tempesta giudiziaria, anche solo per mettere a tacere chi lo accusa di cavalcare la questione morale solo per far calare lamannaiasugliavversariinterni. O, peggio, perché non riesce a reggere la concorrenza di Antonio Di Pietro. Qualcosina in più del sostegno a Iervolino e Domenici di venerdì. Invece niente, nemmeno un «ma anche» per graziare gli altri compagni di partito in difficoltà. Al contrario, commentavano esponenti dalemiani, ieri il segretario Pd ha firmato sul Corriere della sera na lettera «chesembra scritta da Travaglio». E titolata significativamente «Non difendiamo l’indifendibile».
Ragionamento sulla questione morale che è stato interpretato come la volontà di non fare prigionieri. Perché oltre alla necessità arginare il più possibile gli effetti delle inchieste giudiziarie, c’è l’indicazione tutta politica a «scommettere in modo ancora più deciso sull’innovazione». Un cambiamento da gestire insieme ai colonnelli? Nemmeno per sogno: «Noi scommettiamo sulla democrazia diretta, dei nostri elettori, gli unici titolari», con le primarie, della decisione «sulle prime cariche di partito». Con buona pace degli appelli di questi giorni alla «gestione collegiale», come quello che gli era arrivato da Rosy Bindi, che ieri ha ridimensionato gli obiettivi chiedendoun Pd «un po’ più federale».
Basso profilo per gli ex Margherita, a partire da Francesco Rutelli che ha confermato di nonvoler andare alla guerra con il segretario, se non per la collocazione europea del Pd. Decisamente in ritirata i dalemiani che sono rimasti più o meno muti. Anche perché tra le truppe della corrente più ostile al segretario, ieri serpeggiava l’impressione di essere stati abbandonati dal Líder maximo.
Pd normalizzato sotto la guida diVeltroni? Nemmeno per sogno. Il malcontento è palese in periferia e anche nei palazzi romani della sinistra. Dall’Emilia Romagna Sergio Cofferati preme sulla linea giustizialista, dice che tra i militanti «sale la rabbia» e invita gli inquisiti a farsi da parte; Firenze nella bufera, con il sindaco Leonardo Domenici che si incatena, con motivazioni opposte rispetto a quelle di Cofferati, davanti alla sede della Repubblica. Dalla Sardegna persino un veltroniano di provata fede come il governatore Renato Soru, sente di appartenere a un partito che ha «dimenticato il bene comune».
A Roma non va meglio. Il malcontento si è manifestato attraverso una appello chiamato «Per ripartire», promosso dal dalemiano Gianni Cuperlo e firmato da 54 deputati, compresi veltroniani come Paola Concia e Antonio Boccuzzi. Tesi di fondo: il Pd è lontano dal paese reale. Noi,spiega Cuperlo «vogliamo superare il rischio di diventare una federazione di partiti separati». Insomma, basta guerre intestine. Un messaggio in vista della direzione del 19, che dovrebbe essere quella del chiarimento, ma rischia di essere svuotata. La lista dei temi da affrontare è lunga e complessa anche se, come sembra, nessuno chiederà conto a Veltroni delle scelte passate.
Ci sono abbastanza grane da affrontare nel presente. Come l’alleanza con Antonio Di Pietro. Il leader di Italia dei valori ieri è andato a testa bassa sulla vicenda De Magistris, criticando il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il nocciolo della questione lo individua Marco Follini: «Affrontare la tempesta morale tendendo ferma l’alleanza con Di Pietro è come andare in barca con l’elefante».
Contraddizioni e nodi irrisolti che ormai rendono ilPd indigesto persino a Fabio Mussi, fondatore di Sinistra democratica, ma vicinissimo a Veltroni. Nei mesi passati si diceva dovesse entrare nel Pd.
Acqua passata: «Voglio esprimere la mia felicità per non aver aderito a questo partito, è una delle scelte appropriate che ho fatto nella vita». Perché non è un caso se la questione morale è scoppiata proprio in quel partito. Cose di questo genere succedono «quando i partiti diventano macchine di potere».