Walter l’equilibrista direttore dell’Unità a colpi di «ma anche»

Alla guida del quotidiano del Pds dal ’92 al ’96. Due interviste a De Mita in dieci giorni, ma ora lo scarica. Spazio ai gay che adesso penalizza nelle liste. E Ingrao lo rimproverava: fai autocritica

da Roma

Quando Walter Veltroni veniva nominato dal consiglio di amministrazione dell’Unità come nuovo direttore, moriva Marlene Dietrich. Ma il primo editoriale, e la firma effettiva del «giornale fondato da Antonio Gramsci» arrivò solo il 17 maggio 1992. Nei giorni seguenti accadde di tutto: la morte di Falcone, l’elezione di Scalfaro al Quirinale. Ripercorrere i quattro anni del direttore Veltroni significa rivivere i giorni degli omicidi di mafia e della scure di Tangentopoli. Ma, limitandosi ai primissimi mesi, ci sono un paio di cose che colpiscono il lettore che si addentra nell’archivio dell’Unità, sedici anni dopo: la prima è che nei primi dieci giorni Veltroni chiese ai suoi redattori ben due interviste a Ciriaco De Mita, allora potentissimo presidente della Dc, oggi uno degli esclusi eccellenti dalle liste del Pd (come spiegava ieri sera Di Pietro, «Veltroni l’ha cacciato»). La seconda: titoli ed editoriali erano un superbo gioco di equilibrio tra visioni moderate e appelli alla sinistra, una linea molto diversa da quella attuale. Gli albori del maanchismo, direbbe Maurizio Crozza guardando i titoli del trentasettenne neodirettore.
Iniziò con un beau geste. Nel giorno dell’insediamento Veltroni riservò il posto d’onore del fondo a Massimo D’Alema, che firmò l’editoriale, e a se stesso un umile commento sulla spalla destra della prima pagina dal titolo: «Questo giornale e questo Paese». Lo rifarebbe anche oggi? Veltroni poi si augurava, nei suoi impegni da direttore, che l’Unità diventasse «il principale riferimento del dibattito culturale politico, ideale della sinistra, che si sforzi per la sua parte di ricostruire una koinè politica e intellettuale di quella appartenenza, la sinistra, che vive nella coscienza di milioni di uomini. Un giornale ancora più aperto al passato in ragione della sua identità e riconoscibilità». Ma nove giorni dopo, una prima sterzata al centro. Dopo aver proposto in un editoriale il Quirinale all’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Conso, Veltroni titolò il suo giornale: «Scalfaro presidente della Repubblica: “È lui l’uomo delle garanzie”». Con un fondo dal titolo: «Un moderato di cui fidarsi».
Tornava poi alla piazza, il primo giugno in un editoriale sulla guerra jugoslava scriveva: «Movimento per la pace, dove sei finito?». E invitava a «manifestare», citando come esempio positivo Pannella. Il giorno dopo seguì la risposta di Pietro Ingrao: «Un grammo di autocritica deve farsela anche l’Unità - gli replicò - se davvero è così prezioso il movimento per la pace (lo riscopriamo oggi dinanzi alla tragedia dell’ex Jugoslavia) l’Unità gli ha dato l’attenzione necessaria, o almeno l’attenzione minima? Non mi sembra».
L’Unità dedicò in quel periodo aperture di giornale a Papa Wojtyla che stava male, ma diede spazio anche ai «gay che sfidano il Vaticano contro il documento di Ratzinger», allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. L’articolo, in prima pagina, era accompagnato dal fondo di Lidia Ravera dal titolo: «I nuovi roghi»: «Non contenta di cacciarli dal Tempio - l’accusa - la congrega dei dottrinari cattolici vuole cacciarli dallo Stato, i diversi, i non procreativi». Oggi Veltroni si ritrova a fare la guerra con l’Arcigay che lo accusa di non appoggiare le battaglie laiche ed omosessuali.
Lentamente prese più spazio sull’Unità l’America, tra gli editorialisti c’erano Franco Bassanini e Vincenzo Visco (oggi tra i grandi esclusi dalle liste). Ma nel 1992 Veltroni ancora credeva in «un processo di aggregazione della sinistra e dei progressisti intorno al Pds», e incitava: «La sinistra si rinnovi, si unisca, diventi la nuova maggioranza di cui questo Paese ha urgente bisogno». Pezzi di quella sinistra, e di quei propositi, si sono persi per strada.


Eppure, quindici anni fa, era Giuliano Amato il cattivo, e i «trecentomila lavoratori» dell’«Altra Italia: Amato vattene» (titolo del 28 febbraio del ’93) la vera «novità», la «carne viva della crisi di questo Paese». Un Paese che, scriveva Veltroni direttore, non poteva essere guidato «da un governo debole e screditato come quello di Giuliano Amato». Che oggi fa il ministro dell’Interno.

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