Caro Granzotto, mi faccia sognare! Mi dica che dopo le cantonate e le promesse non mantenute per Obama il secondo mandato è escluso e che nel 2013 andrà alla Casa Bianca la sorprendente, meravigliosa Sarah Palin!
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Ma no, ma quali sogni, caro Domenichini. Non siamo gente che sogna. Lasciamo questo esercizio ai «sinceri democratici» che invece di sogni vivono - e I have a dream di qua, e I have a dream di là... - nellattesa che una volta o laltra sorga il benedetto sol dellavvenir. Certo, però, che Barack Obama è messo male e lo è proprio per quello che seguita a ripetere Sarah Palin: la gente «è stanca di sentire soltanto parole e parole e parole». Non si accontenta più dei discorsi ancorché «storici» del neo presidente, degli annunci e dei proclami: vuole fatti. E bisogna proprio ammettere che fino a oggi di fatti se ne son visti pochini. Tuttavia non mi sembra il caso di concluderne che Obama sè già giocata la rielezione. Tre anni sono lunghi e se in questo tempo leconomia americana si riprende e cala il numero dei disoccupati, se, mettiamo, i marines catturano Obama (io sono convinto che sia morto, ma tutti seguitano a dire che, anche se un po malconcio, quel pazzo criminale è ancora in pista) o i servizi sventano un mega attentato in America, Obama può tranquillamente aspirare al secondo mandato. Quanto alla Palin, tanto di cappello. Tipo tosto. Lavevamo lasciata una goffa e imbarazzata candidata alla vicepresidenza e ce la ritroviamo disinvolta e persuasiva, metà Giovanna dArco e metà Margaret Thatcher (con un pizzico o magari qualcosa di più di allure berlusconiana). Mica male per una «hochey mom».
A differenza di Obama, che parla forbito, che non finisce mai di menarla coi sogni e con il domani radioso («Domani si fa credito», si poteva leggere in molte botteghe, quando cerano le botteghe), che è cool, «giusto», e se la tira da meglio fico del bigonzo elitario, Sarah Palin è genuina, ruspante. Non piacerà alla ghenga di Hyannis Port o di Marthas Vineyard, ai liberal di Boston o di Manhattan, ma cè unAmerica vasta e profonda che comincia a innamorarsene. E se il suo zoccolo duro è per ora rappresentato dagli aderenti al «Tea Party» (che ricorda la protesta dei coloni americani del 1773, il «Boston tea party» allorigine del processo di indipendenza, ma è anche lacrostico di Taxed Enough Already, «Già abbastanza tassati»), la Palin seguita a guadagnare simpatie bipartisan in ogni settore della società. Perché parla a nome della gente, degli «americani che coltivano le cose che mangiamo e fanno funzionare le piccole aziende, che insegnano ai nostri figli e che combattono le nostre guerre». Perché pone domande che tutti si pongono: «Obama ha passato un anno a corteggiare regimi ostili, scrivendo lettere a pericolosi dittatori e chiedendo scusa. E che cosa abbiamo ottenuto?». Perché chiede meno tasse, un governo che stimoli la competizione (concetto che fa inorridire i liberal americani e i «sinceri democratici» nostrani), sostenga la concorrenza e premi il lavoro. Musica per le orecchie di quanti si sono storditi con il suadente ma astratto idealismo messianico di Obama.
«We have a dream»: Sarah Palin dopo Barack Obama
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