Cultura e Spettacoli

Il Wiesenthal che non c’è stato

Non si è trattato di ritualità mortuaria. L’omaggio corale tributato a Simon Wiesenthal, il «cacciatore di nazisti» che si è spento a 96 anni, ha rispecchiato un forte sentimento di ammirazione e di rispetto per questo giusto: che alla giustizia ha sempre dichiarato di volersi ispirare, non alla vendetta. I carnefici e torturatori che egli ha scovato non meritavano nessuna pietà. Se anche qualcuno tra loro - celebre il caso di Adolf Eichmann - fu catturato e portato in Israele, per esservi processato e giustiziato, con metodi poco ortodossi, non è davvero il caso di inquietarsene. Di fronte all’enormità dei crimini di cui Eichmann e altri dovevano rispondere, le questioni di correttezza procedurale o di legalità spicciola perdono ogni importanza. Wiesenthal se n’è andato, dopo una vita che non avrebbe potuto essere spesa meglio, e tutti gli dobbiamo gratitudine per quanto ha fatto. Finché sarà ricordato l’Olocausto - spero per sempre - sarà ricordato anche l’uomo che instancabilmente ne scrutò le tenebre: contribuendo alla cattura di oltre mille sgherri che dell’immane strage erano stati partecipi e artefici. Probabilmente Wiesenthal ha avuto il rammarico di essersene lasciati scappare alcuni. (Ha ritenuto ultimamente, da saggio quale era, che non valesse nemmeno più la pena di inseguirli «sono troppo vecchi e fragili per sostenere un processo»). Per quanto mi riguarda aggiungo, a quello di Wiesenthal, un mio personale rammarico: che non ci siano stati, e che non abbiano potuto liberamente operare altri Wiesenthal per ricercare, denunciare, e possibilmente cacciare in galera, carnefici e torturatori d’ideologia diversa dalla nazista, ma non per questo meno ripugnanti. So quanto sia stata atrocemente unica, per i suoi contenuti razziali oltre che per la sua crudeltà, la persecuzione antisemita del nazismo, so quanto sia difficile ammettere ogni possibilità di confronto con le tante stragi e pulizie etniche di cui è disseminata - ancora oggi - la storia dell’umanità. Ma ve lo immaginate quanto sarebbe stato bello se, sull’esempio straordinario di Wiesenthal, un cacciatore di ceffi stalinisti e poststalinisti si fosse potuto dedicare, dopo la caduta del muro di Berlino, all’individuazione di coloro - almeno i superstiti - che al tempo in cui comandava il buon padre dei popoli fucilavano all’ingrosso degli innocenti, estorcevano con supplizi spaventosi le confessioni esibite poi in processi farsa, condannavano alla morte per fame milioni di kulaki? Sarebbe stato bello davvero. Bello soprattutto se le autorità russe avessero dato il loro appoggio - come nel dopoguerra hanno fatto le autorità tedesche - per questa scoperta di antichi torti e di antiche colpe. Per fortuna già Stalin in persona aveva provveduto ad eliminare un’infinità di suoi manutengoli, e qualche repulisti s’è avuto anche dopo. Ma la massima parte dei boia sovietici è morta - finita la stagione terribile delle purghe - nel suo letto, magari tra agi e onori. Niente cacciatori. Niente prede. Nessun Wiesenthal. Un po’ perché non è facile trovare personaggi come lui. Ma soprattutto perché a un cacciatore non sarebbe stato consentito di cacciare. Il che ripropone - la figura di Wiesenthal, sia chiaro, è fuori discussione - alcuni quesiti sollevati dal processo di Norimberga. Che punì adeguatamente i gerarchi nazisti i cui crimini contro l’umanità erano provati e orrendi. Ma nell’aula di Norimberga si aggirava, per controllare che tutto funzionasse a dovere, quel Vyshinskij che aveva inscenato le orribili parodie giudiziarie volute da Stalin. La giustizia dei vincitori.

Se non fosse stata tale il torvo procuratore sovietico avrebbe dovuto sedere a fianco degli imputati, non a fianco dei giudici.

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