Cultura e Spettacoli

A Wim Wenders il Pardo d’onore: «Però smetto di fare l’americano»

Il regista a Locarno: «Per Don’t come knockin’ volevo il set nella Monument Valley ma quelli ormai sono paesaggi da spot»

Carlo Faricciotti

da Locarno

Uno dei tre Pardi d’onore che costellano l’edizione 2005 del Festival di Locarno è stato consegnato ieri a Wim Wenders; gli altri due onoreranno, nei prossimi giorni, Abbas Kiarostami e Terry Gilliam. A sessant’anni (li ha compiuti lo scorso 14 maggio) anche Wenders entra così nel canone dei maestri del cinema.
Il Pardo corona una carriera iniziata alla fine degli anni Sessanta, esplosa alla notorietà internazionale insieme a quella dei compagni di strada (Herzog, Fassbinder ecc.) del Nuovo cinema tedesco nel corso dei Settanta - con film come Alice nella città, Falso movimento, Nel corso del tempo, Lo stato delle cose e altri - fino al successo di critica e pubblico de Il cielo sopra Berlino (1987). Da quel momento, secondo alcuni, l’autore originale ha ceduto al manierista, fossilizzato nella ripetizione dei suoi temi prediletti: il viaggio (ma l’americanofilo Wenders direbbe l’on the road), la riflessione sui rapporti tra cultura europea e cultura statunitense, la lettura politica della realtà attraverso le metafore e così via.
A Locarno, oltre a ricevere il Pardo d’onore e a presentare il suo ultimo film, già in passerella a Cannes, Don't come knocking, Wenders ha parlato del suo ultimo lavoro ma anche del suo essere un regista europeo che gira spesso e volentieri negli Stati Uniti. Avrebbe voluto girarlo nei luoghi di John Ford, nella Monument Valley, ma «è stata una delusione andarci, ormai quei bei paesaggi sono troppo legati agli spot pubblicitari. Ti vengono subito in mente le sigarette». Una delusione non indifferente per un autore che tanto ama i paesaggi americani e che ha anche spostato la troupe nel meno sfruttato Stato americano del Montana.
Don't come knocking (in uscita in Italia a ottobre) sarà l’ultimo film «americano» del regista. Don't come knocking è la storia, ambientata ai giorni nostri, di Howard (Sam Shepard, anche sceneggiatore del film), un tempo attore famoso, che trascina stancamente il proprio personaggio di star del western, vittima della sua stessa fama. Sta girando in mezzo al deserto l’ennesimo western dozzinale quando decide di fuggire. Howard si rifugia dalla madre (Eve Marie Saint), che non lo vede da anni e grazie alla quale scopre di avere forse un figlio da qualche parte. Notizia che lo spinge a mettersi sulle tracce dell’antica fiamma Doreen (Jessica Lange, nella vita moglie di Shepard) e del presunto rampollo. Con Shepard, Wenders aveva già lavorato ai tempi del citato Paris, Texas ma l’autore-attore americano «non aveva accettato di recitare in quel film, non si sentiva maturo per la parte. In realtà era stato un mio errore, glielo avevo chiesto prima che scrivesse il copione. Stavolta sono stato più furbo e gliel’ho chiesto dopo che aveva finito di scrivere. All’inizio la Lange non era nel cast: ormai recita pochissimo, pensa soprattutto alla famiglia. La fortuna è stata fissare le riprese a dopo la maturità della figlia: a quel punto Jessica non aveva più scuse. Entrambe, marito e moglie, hanno cambiato qualche battuta nel corso delle riprese, adattandole alla loro sensibilità del momento e io sono stato felice di assecondarli».
L’idea del film, continua Wenders, «era di seguire un uomo solo ma anche di conoscere le donne fondamentali della sua vita che pian piano prendono il sopravvento. All’inizio della mia carriera non ero un “regista di donne” perché non ne sapevo molto, non mi sentivo in grado di raccontarle bene. Nel fare questo film mi sono ispirato a uno dei maggiori registi giapponesi, Yasujiro Ozu, che ha diretto 50 film e tutti sulla famiglia. Famiglie giapponesi che rappresentavano tutte le famiglie del mondo. Anch’io ho voluto fare un film sulla famiglia, sulle donne, i padri, i figli».
Se lo stile del film ha tratto linfa dai quadri malinconici ed esistenziali di Edward Hopper, fondamentale, come in tutti i film di Wenders, è la colonna sonora, stavolta firmata da T-Bone Burnett, «un musicista molto schivo che amo molto e che ha lavorato anche con i fratelli Coen». Tra l’altro il film sarà rieditato con una canzone di Bono, cantata assieme ad Andrea dei Corns, sui titoli di coda. «Avevo chiesto a Bono di partecipare alla colonna sonora ma all’epoca sapevo che era impegnato con la tournée, il Live 8 e tutti i suoi progetti politici, per cui non ci contavo molto. Una settimana prima di finire il montaggio Bono mi ha fatto avere la canzone, che ha lo stesso titolo del film.

Troppo tardi per Cannes, ma in tempo per l’uscita in sala».

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