Yemen, il Paese di Bin Laden è il nuovo paradiso dei terroristi

C’è un filo che da Detroit porta al lontano Yemen. II presunto legame tra il sospetto attentatore, Abdul Faruk Abdulmutallab, e il Paese della penisola araba gonfia le preoccupazioni dell’Amministrazione Obama. Il giovane nigeriano ha rivelato alle autorità americane di aver ricevuto laggiù istruzioni ed esplosivo. La pista non è ancora stata provata dagli investigatori, ma Washington sa bene che lo Yemen è un porto franco per i militanti di Al Qaida, un paradiso in espansione per i terroristi.
Per l’intelligence americana lo Yemen è il nuovo Pakistan. «Se la connection yemenita fosse reale, sarebbe impressionante - ammette Evan Kohlmann, consulente privato di anti-terrorismo che da più di dieci anni studia i network terroristici e Al Qaida -. Significherebbe che c’è chi nel Paese sta cercando di fabbricare ordigni esplosivi capaci di attraversare i controlli di sicurezza», come è avvenuto ad Amsterdam. E ricorda come a ottobre un terrorista si sia fatto saltare in aria a pochi metri dal principe saudita Mohammed bin Nayef, capo delle operazioni di contro-terrorismo di Riad. L’esplosivo che aveva in corpo proveniva dallo Yemen e l’uomo aveva attraversato almeno due posti di controllo.
E nello Yemen, patria della famiglia Bin Laden, gli Stati Uniti erano già stati colpiti. Nel 2000, un attacco esplosivo contro il cacciatorpediniere americano Uss Cole nel porto di Aden causò la morte di 17 marinai. Ma finora, le intelligence internazionali ritenevano la Repubblica yemenita un territorio di addestramento, una minaccia diretta per obiettivi occidentali all’interno del Paese e per i vicini, primi fra tutti Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Se l’esplosivo in mano al nigeriano arrivasse effettivamente da Sana’a, la percezione cambierebbe. «La connection spiega che il franchising di Al Qaida non è interessato soltanto ad attacchi locali - dice Kohlmann -, ma che dallo Yemen possono partire azioni anche contro Stati Uniti ed Europa». Washington non ha aspettato gli eventi di Natale per capirlo. L’Amministrazione ha stanziato 70 milioni di dollari quest’anno per aiutare il governo di Ali Abdullah Saleh a contenere la minaccia di Al Qaida; da novembre, un piccolo numero di forze speciali americane addestra i militari yemeniti; come in Pakistan, la regione è sorvolata dai micidiali droni americani (mandati per far fronte all’emergenza pirateria a largo delle vicine coste somale).
Da parte sua, il governo yemenita ha capito da tempo che Al Qaida rappresenta una minaccia per il Paese, ma mantiene una posizione ambigua: secondo gli analisti sfrutta infatti i ben armati e addestrati uomini di Al Qaida per contenere al Nord, lungo la frontiera con l’Arabia saudita, i militanti sciiti Houthi, appoggiati dall’Iran. Lo spettro della crescente egemonia di Teheran è diventata però per Sana’a una minaccia troppo grande. Ali Mohammed Al Anisi, capo dell’agenzia per la sicurezza nazionale, ha detto che esistono «prove d’interferenza». In cambio dell’aiuto di Washington per arginare le mire iraniane, Sana’a avrebbe dovuto cedere su Al Qaida. Nelle ultime settimane, l’aviazione yemenita con il sostegno americano ha bombardato obiettivi legati alla rete. Gli Stati Uniti hanno lanciato missili Cruise contro due basi di Al Qaida il 17 dicembre. Il 24 un bombardamento yemenita avrebbe colpito un ritrovo di leader del gruppo nella provincia di Shawba. Tra loro avrebbe dovuto esserci anche Anwar Al Awlaki, nato in New Mexico, Stati Uniti. L’ex imam di una moschea della Virginia è stato consigliere spirituale di alcuni degli attentatori dell’11/9 e sarebbe stato in contatto con il maggiore Nidal Hasan, l’uomo che a novembre ha ucciso 12 militari nella base di Fort Hood.
Quello che è successo a bordo del volo per Detroit ricorda all’Amministrazione Obama che il fronte non è uno solo. Difficile però pensare che «gli Stati Uniti possano fare più di quello che stanno facendo nello Yemen, campo di addestramento alternativo al Pakistan e all’Afghanistan», spiega Kohlmann.

Il Paese è la ragione principale per la quale il presidente Barack Obama non riuscirà a mantenere una promessa elettorale: chiudere Guantanamo a gennaio. Più della metà dei 210 detenuti del centro è yemenita, ricorda il Wall Street Journal. E molti di loro hanno detto durante gli interrogatori che, se liberati, colpirebbero ancora gli Stati Uniti.

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