Zacharias si scatena Applausi per «Manon»

Zacharias si scatena Applausi per «Manon»

Estroso e persino un po' istrionico in contrasto con l'aspetto compìto e senza grilli da intellettuale del Nord, Christian Zacharias è un trascinatore. Il suo mezzo non è l'acrobazia virtuosistica, né l'esecuzione al limite, né la vena travolgente. Ma l'imprevedibilità agogica, il senso chiaroscurale e assieme la sottile quadratura filologica. Zacharias, pianista estremamente selettivo (Scarlatti, il classicismo viennese, il romanticismo di Schumann, le inquietanti geometrie di Ravel... ), da qualche tempo è anche direttore.
In Sala Verdi, dove inaugura la stagione del Quartetto, arriva infatti con l'Orchestre de Chambre de Lausanne della quale è guida stabile e artistica. In programma un tutto Beethoven declinato a 360 grandi. Da alcuni numeri del suo unico vero balletto, Die Geschöpfe des Prometheus, al primo Concerto per pianoforte e orchestra, alla Quarta Sinfonia. Cui si aggiungono due bis che da soli avrebbero dato alla serata un'impronta d'eccellenza. Quello del pianista, una Sonata di Scarlatti che è una manciata di scaglie di luce. E quello dell'orchestra, un numero della Rosamunde di Schubert che è la più avvolgente tavolozza di affetti. Il programma vero e proprio privilegia il pianista, il suo suono chiaro e legato ma anche turgido e estrosamente romantico. L'orchestra è brillante e compatta. Un po' generica, e comunque secondaria rispetto al taglio settecentesco che Zacharias conferisce al Concerto, all'espressività piena e persino un po' teatrale che chiede per la Sinfonia. Che è presa a tempi velocissimi e scandita con mutevolissima chiarezza. Alla souplesse timbrica e ritmica del Prometeo, che glissa con eleganza anche sui parenti più illustri (Terza sinfonia). L'Orchestra di Losanna esegue con convinta dinamicità interiore. Non è perfetta. Ma la lettura atipica, lontano dalle versioni paludate e a volte un po' troppo marmoree, piace. Chistian Zacharias? Dirige come suona. Il pianista è un numero uno. Sul direttore ci sarebbe da ridire. Ma anche tanto da dire. E non è poco.
Il giorno prima la Manon di MacMillan bypassa lo sciopero dei camerini e schiera alla Scala Ballo e Orchestra del teatro. Ospiti Alessandra Ferri-Manon e Roberto Bolle-Des Grieux. Il titolo sviluppa lo stile narrativo britannico che Kenneth MacMillan vena di intimismo e bozzettismo. Il coreografo è di quelli che crede alle parole della danza: i dissidi interiori si trasformano in concatenazioni aggrovigliate, la felicità in tours e grand jetées giocati en vitesse. Ma il ritmo narrativo è lento e un po' datato. Fatta eccezione per l'ambiguità dell'hotel particulier del secondo atto. Capolavoro psicologico risolto nell'assolo fluttuante della protagonista che passa di uomo in uomo, mentre il padrone del suo corpo la guarda cupido per alimentare una bramosia al tramonto. Tra gli scaligeri si fa notare lo svettante Antonino Sutera (Lacotte l'ha scelto per La Sylphide e le sue virtuosistiche batterie). Non male il Lescaut di Alessandro Grillo. Bene l'amante di Deborah Gismondi. Mentre fa proprio rimpiangere l'insuperabile Anthony Dowell Francisco Sedeno, anonimo Monsieur G. B. Alessandra, un po' insicura, si affida all'indiscutibile bellezza delle gambe e dei celebri piedi arcuati. Ma soprattutto alla classe e a un'espressività che nel tempo l'ha trasformata nella più intensa delle tragédiennes. Per Roberto Bolle non ci sono parole. Bello, bravo, nobile, appassionato. Tecnicamente strepitoso e straordinariamente plastico e morbido in relazione all'imponenza della sua statura.

A sua volta molto maturato anche sul versante drammatico è una presenza che offusca tutte e altre. «È troppo. Chi non temerà il paragone? In cambio il direttore Ermanno Florio e l'Orchestra fanno poco per dare smalto a una partitura che andrebbe aiutata.

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