L’appuntamento è alle due e un quarto del pomeriggio. Questo palazzo in via Buonarroti 38, in una Milano incerta tra pioggia e primavera, è un labirinto di uffici. Molti sono targati Bonelli. Il vecchio patriarca è al secondo piano. Le pareti sono un viaggio nella storia del fumetto italiano, un mondo dove perdersi. Passi davanti a un Tex di Galep, china, bianco e nero, praterie sconfinate. Stampe d’epoca dell’uomo mascherato. Le terre lontane e perdute di Hugo Pratt, le donne di Manara. C’è il Dylan Dog di Villa, quello con i morti che sbucano dalla terra, ottobre 1986. Ci sono quadri d’autore che non conosci, tanti, e uno almeno che riconosci con un tonfo al cuore. Occupa quasi una parete e c’è il volto, con i capelli neri scarmigliati e gli occhi zingari di Almerina. È romanzo a fumetti di Buzzati. T’incanti.
Sergio Bonelli arriva di fretta. Non ha nulla dei suoi 75 anni. Solo qualche acciacco: «Ma mi lascio la libertà di ammalarmi». Saluta. Indica una porta: «Andiamo qui. Questa è la stanza degli ospiti». Altre tele. Su una mensola c’è il modellino di un aereo di metallo. «È il piper di Mister No?». «Fammi vedere. Non, non credo. È a doppia elica. È un aereo della Grande Guerra». Siamo qui per parlare di come muore un fumetto, o di come vive. La legge di Darwin degli eroi di carta. Qualche mese fa Bonelli ha detto addio a Mister No. Niente più avventure. Il piper abbandonato nel hangar, Manaus lasciata ai ricordi degli anni ’50, l’Amazzonia persa nei suoi pochi e ultimi misteri. Jerry Drake, pilota yankee che ha combattuto nel Pacifico, chiude bottega, lasciando sul tavolo una bottiglia di bourbon vuota e una di cachaca ancora buona, una collezione di donne amate e perdute, un vecchio vinile di Body and Soul e un pugno di lettori depressi: non arrivano a ventimila.
Chi invece non si arrende è Zagor. Lo spirito di Darkwood, l’indiano bianco, brinda alla cinquecentesima avventura. Ha vissuto stagioni migliori, ma il suo zoccolo duro di amici resta. «Ventiseimila lettori - dice Bonelli - di questi tempi è un buon numero». Tutti e due, Zagor e Mister No, raccontano il mistero e l’avventura, l’altrove e la libertà. Tutti e due sono nati dalla fantasia di Guido Nolitta, il nome che Sergio Bonelli ha scelto per sfuggire all’ombra del padre, Tex. «Quando Gianluigi Bonelli non ce la faceva più a scrivere tutte le sceneggiature ci siamo posti il problema di chi affiancargli. Non era facile. Lui poteva diventare intrattabile. Scrivere di Tex era come rubargli l’anima. Anche perché lui si sentiva, era, Tex. Andava in giro per Milano con il fazzoletto nero al collo, la camicia gialla e il cappello western. I rapporti più difficili li aveva con me. Tex doveva essere serio. Niente battute, niente comicità. Io cercavo di non esagerare, ma lui rimbrottava: «Dovresti scrivere per Paperino». Cico, l’amico grasso e messicano di Zagor, è la risposta a tutto questo. Il segno di Guido Nolitta e delle sue storie è la leggerezza. Mister No e Zagor non si prendono mai sul serio. Neppure quando è l’ora di dirsi addio.
Il paragone. Zagor combatte ancora, Mister No è in pensione. Perché?
«La risposta più semplice è nei numeri. Ma non credo che lei si accontenti di questa».
Vero.
«Forse la colpa è dell’Amazzonia. Ho cominciato a raccontare Manaus nel 1970. Ero tornato da lì dopo un lungo viaggio. Innamorato. In questi posti c’era ancora il paradiso perduto. Terre sconosciute. La foresta era un mistero inespugnabile. Ancora negli anni ’50 c’erano tribù che non avevano mai incontrato l’uomo bianco. Tutto questo è svanito. La terra non nasconde più segreti. Mister No è un uomo del passato. Negli ultimi tempi era diventato triste, intrattabile, musone. Il mio era nato per l’allegria, per le donne, la baldoria e qualche traccia di malinconia. Quando un personaggio diventa triste è finito».
Mister No ha il fascino delle canzoni di Paolo Conte.
«Stessa musica, stesse immagini. Ho incontrato Conte una sola volta, un quarto di secolo fa, una notte d’inverno. Suonava in un teatro a Giussano. Era già conosciuto, ma la gente quel giorno era poca. Mi fermai a parlare con lui, con l’entusiasmo un po’ invadente dei fan. Parlai per un’ora. La sua magia è raccontare per immagini».
Qual è il punto forte di Zagor?
«È divertente. È uno spettacolo di arte varia. È avventura, magia, comicità, fantasia. Ed è sempre fedele ai suoi lettori».
Qualche tempo fa è finito in cantina anche Napoleone, un fumetto morto giovane.
«Capita. Vendeva solo 18mila copie. Troppo colto».
E Ken Parker?
«È fermo lì in prigione. Incompiuto. Tutti vorrebbero conoscere la fine. Ma Berardi non vuole o non può».
Sono tanti i fumetti morti. Quali rimpiange di più?
«Quelli della mia gioventù: L’uomo mascherato, Cino e Franco, Mandrake. E poi la Storia del West di Gino D’Antonio, un grandissimo autore, che racconta l’epopea americana con gli occhi della famiglia MacDonald. Quando sono stato sul campo di battaglia di Little Big Horne, lì dove fu sconfitto Custer, ho usato le sue carte per orientarmi. Erano perfette. Volevo che la sua saga andasse oltre il tramonto del West, oltre la barriera del Novecento. Ma lui mi ha sempre detto di no».
Allora è vero che la sua passione è visitare i campi di battaglia?
«Lo confesso. Mi ritrovo spesso a sentire il profumo della guerra e della morte».
Quale personaggio dei fumetti ama di più?
«Ci devo pensare. Ma alla fine dico Cico».
È un dispetto a suo padre?
«Avevamo gusti diversi. A lui piaceva Mefisto. Si divertiva a farlo parlare con uno stile dannunziano, aulico».
E le donne?
«Quelle vere?»
Quelle di carta. Una che vorrebbe incontrare.
«La Sabbia è rossa si chiude con il bacio di Zagor a Frida Lang. È il numero 115, febbraio 1975. Chiesi a Gallieno Ferri di disegnarla con il volto di un’attrice austriaca con i capelli corvini e gli occhi azzurri. Ero tanto innamorato di Hedy Lamarr...».
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