Arte

Cercare attraverso l'arte la vertigine dell'altro

Buttafuoco riflette sul tema di questa edizione che vuol dare forma alle differenze e al sogno della pace

Cercare attraverso l'arte la vertigine dell'altro

Come siamo arrivati a questo punto? Non possiamo ignorare l'ospite silente che incombe nel cuore di tutti noi e la domanda è: come siamo arrivati a questo punto? Vi porto in un fotogramma ben preciso: Helmut Kohl e François Mitterrand sono mano nella mano nella foresta nera e vanno a rendere omaggio all'ultimo soldato insignito della croce di ferro, che è anche autore di un libro che è parola, viatico, futuro, e la parola è pace. E La pace, il suo libro, reca come sottotitolo una parola ai giovani d'Europa e del mondo, e la parola è pace, l'autore è Ernst Jünger, la croce di ferro è lui ed è a lui che Kohl e Mitterrand consegnano il suggello di pacificazione di una guerra che non ha mai avuto fine tra i loro popoli - la Francia e la Germania - e sono mano nella mano entrambi per rendere onore all'ultimo soldato la cui parola di destino è pace.

Il prossimo 2025 tutti noi saremo chiamati a segnare una distanza dal 1795. È l'anno di pubblicazione della Pace perpetua di Immanuel Kant, e chissà il prossimo anno dove saremo arrivati, chissà quale clausola salvatoria - questo è quello che detta Immanuel Kant - avrà modo di riparare i danni dell'ospite che oggi è in tutti noi. Noi non ci possiamo rassegnare di avere smarrito il dovere di pace quando, arrivando a questo punto, già sappiamo di non poter fare tesoro della fatica operosa di un Giorgio La Pira, quando nella sua Firenze convoca da tutto il mondo i nemici irriducibili per costringerli al dialogo. E quindi come siamo arrivati a questo punto se una persona come Pio La Torre, un martire, giustamente ricordato nel suo luogo, ovvero nel Parlamento della Repubblica Italiana, oggi di certo non avrebbe voce, sarebbe considerato, in virtù della sua battaglia di pace, un nemico, e quindi additato come un nemico interno al servizio dello straniero?

Noi non possiamo fare finta di niente, e oggi che la 60esima edizione della Biennale d'Arte trova nel titolo Stranieri Ovunque questa vertigine dell'ignoto e ci conduce ben oltre la contemporaneità, ci impone anche di dismettere definitivamente la dimensione internazionale, perché la contemporaneità cede nel qui e ora dell'accadimento che non è evento e quel che ci riguarda è il futuro. L'internazionale, questa parola, riflettiamoci, è come una sorta di centrino dimenticato nel tiretto di un mobile in disuso e tarlato, perché non c'è altro orizzonte che l'universale ed è l'esatta misura che Adriano Pedrosa ha chiamato a Venezia - città unica al mondo dove ogni straniero da sempre trova domicilio: le geografie dimenticate, il ritorno alla res extensa, il riverbero plurale di una bellezza altrimenti dimenticata, esclusa, cancellata. Grazie Adriano Pedrosa. Perché nel suo lavoro ha ritrovato la bussola che ci consente di interpretare il paradigma a cui siamo chiamati, che non è quella di un'epoca di cambiamento ma un cambiamento d'epoca. Pedrosa viene dal Sud America e conosce bene la collocazione dei punti cardinali e sa che queste forme, che sono simboli, si sono antropizzati. E lo sappiamo: il nord se ne sta in testa con tanto di cappello e il sud è possibilmente a piedi scalzi.

È straniero dunque l'essere straniero tra gli stranieri, a piedi scalzi, è il viandante in cammino tra i percorsi più impervi, è il mendicante i cui stracci spesso servono a nascondere la presenza di un Dio ed è quel nume sconosciuto a se stesso da cui gemma da sempre il rinnovarsi delle stirpi. Noi lo consociamo bene, è Enea che si lascia alle spalle il fuoco di Ilio per fondare, lui che è straniero, quella civiltà dell'universale dove nessuno più è un barbaro ma un cittadino. Ed è questo il privilegio, il vantaggio, il terreno da cui noi possiamo arare un senso e un significato che va ben oltre la contemporaneità: è il futuro, quel futuro che sa essere radice nella profondità ed è quella che si riconosce nell'uomo che incontra la gente, ed è nella gente che riconosce la propria umanità, e la metafora è confine nel senso stesso del masticare, perfino mangiando. Ed è molto bello che in questa mostra la parola Abaporu, che in lingua tupi significa uomo che mangia la gente e del mangiare nell'area dell'intero Mediterraneo, in quello che poi è la radice stessa della civiltà, c'è un codice familiare che ci riconduce a due interpretazioni del divino, due conturbanti virgulti bellissimi, da cui traspare l'innocenza che scatena quell'appetito del volerseli mangiare. Il primo è il figlio di un Dio, è partorito dal polpaccio del suo genitore Zeus, ed è Dioniso; l'altro, figlio di Maria la prescelta, è quel Gesù la cui innocenza e candore rimanda a un'eucarestia, a una liturgia che è promessa dell'eterno per tramite di se stesso, quindi cibo per tutti. Uomo che mangia la gente.

Magnifico come i fili apparentemente lontani, magnifico come le geografie apparentemente dimenticate, magnifico come la fatica dell'arte ove tutto possa essere ricondotto a una dimensione in cui strano, straniero, straniante è allo stesso tempo nutrimento e linfa.

Ed è veramente stupefacente che la città che da 129 anni ha ideato la Biennale internazionale dell'arte, rinnova le sue promesse proprio in una coincidenza, quella dei 700 anni di Marco Polo, che è curiosità, volontà di andare a incontrare e visitare le culture percepite come lontane ma che sono sempre a noi vicine.

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