Cultura e Spettacoli

Il grido di Powers nelle rovine dell'America di reduci e schiavi

Il nuovo romanzo si svolge durante la Guerra civile: «Dal passato all'oggi c'è una linea ininterrotta, una catena»

Stefania Vitulli

Nei romanzi di Kevin Powers scorrono tutte quelle parole che credevamo di avere perduto: verità, ribellione, onore, coraggio, giuramento, fragilità, crudeltà. Sono romanzi essenziali e puri che riportano ad una idea di narrativa tridimensionale, di carne, odori, istinti e inarrestabili moti d'animo destinati a durare oltre le vite dei singoli. Due adolescenti al fronte in Irak, amici, poi reduci, poi sopraffatti dal dolore in Yellow Birds (Einaudi), il pluripremiato romanzo d'esordio nel 2012. Un proprietario terriero nell'America schiavista in guerra civile che parte per il fronte e quando torna ha perso tutto, la tenuta, la figlia dodicenne e gli schiavi, per mano del vicino in Un grido nelle rovine, in uscita oggi (La nave di Teseo, trad. di Carlo Prosperi, pagg. 272, euro 19).

Entrambi sono romanzi, se non propriamente autobiografici, quantomeno ispirati alla vita dell'autore e quindi in qualche modo legati da una visione dell'esistenza e della storia. Powers è un reduce, che a 17 anni ha combattuto in Irak e poi è tornato a casa, in Virginia, dove è nato 39 anni fa: «Sono cresciuto in un luogo che è stato profondamente influenzato e direi formato dall'istituzione della schiavitù, dalla guerra civile che è scaturita e dalle conseguenze che ne abbiamo ereditato» ci ha raccontato. «Capisco che la connessione non sia così ovvia, se vista da fuori, ma quando sono tornato dalla mia guerra, dalla mia stessa esperienza ed esposizione alla violenza, ho sentito che possedevo un nuovo contesto per la storia particolare del mio Paese e del mio Stato, per la mia città natale».

Antony Levallois, proprietario di tabacco e cotone, consapevole che le piantagioni avrebbero avuto vita dura al confronto con il vicinissimo automatismo industriale, frustrato e cattivo, con la vita e con gli schiavi o forse solo costretto a guadagnarsi un rispetto in cui non crede, è il nemico. Bob Reid è la vittima: ha perso tutto e dalla guerra ha guadagnato un moncone. Intorno a loro, un'America mossa dal vento della battaglia e del cambiamento, ma soprattutto una natura lussuriosa e impavida, che se ne frega del colore della pelle umana e risplende, nel caldo brutale del Sud: «L'idea principale per il romanzo - l'omicidio del proprietario di una piantagione in cui era coinvolta la sua giovane moglie viene da un fatto storico avvenuto nel luogo dove sono cresciuto, un fatto che è parte della mitologia locale», spiega Powers. «A nemmeno trecento metri dalla mia casa natale sorgono le rovine di una tenuta che rimane un tratto dominante nel mio paesaggio infantile: là viveva l'uomo ucciso e dopo di lui sua moglie. Ho pensato che in quell'ambientazione, e in quell'atto di violenza, ci fosse qualcosa che poteva illuminare la violenza più estesa e le tensioni sociali che hanno attraversato l'intera Virginia, il Sud e più in generale l'America».

È inevitabile che il punto di vista di un reduce abbia sedotto i lettori americani e mondiali da Yellow Birds è stato tratto, due anni fa, anche un film. Ma in questo secondo romanzo Powers va oltre, nel tentativo di aggiungere qualche pezzo al mosaico identitario americano, in quel modo deciso e diretto che ha dato forma ai romanzi di Cormac McCarthy, William Vollmann, ma anche alle drammaturgie di Sam Shepard, che Powers ammira o, per venire a noi, agli affreschi di Giovanni Verga, di cui ha appena cominciato a rileggere I Malavoglia. La sua poetica è questa - l'uomo è lotta e miglioramento - e la ricerca prosegue: ora sta scrivendo un romanzo ambientato nella desolazione selvaggia delle Montagne Rocciose. Il protagonista è un ricercatore ambientale, appena colpito da una tragedia personale, alla ricerca di un uccello che si dice sia estinto: «C'è una tendenza potente a guardare alla storia come se fosse in quarantena rispetto al presente. Ma io vedo chiaramente una linea ininterrotta dal passato all'oggi: il mio obiettivo principale quando scrivo un libro è scoprire i modi in cui questa catena sopravvive, si adatta e ci connette a un mondo che ci appare alieno, ma è molto più vicino alla nostra realtà di quanto vogliamo ammettere».

Ecco perché Un grido nelle rovine si svolge principalmente negli anni della Guerra civile, ma attraversa in realtà un secolo, perché dal 1861 arriva fino agli anni Ottanta del Novecento, quando George, un novantenne di colore, viene sfrattato dalla sua casa di Richmond, la città natale di Powers, per la costruzione di una superstrada. George è il figlio di Balia, la schiava di cui si innamorerà Rawls, che lavora per Bob Reid. George è il nostro gancio con la realtà contemporanea. Attraverso di lui capiamo che la macchia umana non stinge mai e che una volta che vergogna e male ti hanno colpito non sarai mai più lo stesso, non importa il secolo a cui appartieni: «Gli esseri umani sono capaci, e sono sempre stati capaci, di terribili atti di crudeltà. Ma anche di straordinaria compassione. Quel che esploro in entrambi i romanzi, e che esplorerò sempre, è come questi due aspetti possano coesistere». Anche per le nazioni e gli Stati accade la stessa cosa? «In America, nel passato come oggi, la tensione è tra gli ideali fondativi, libertà, felicità, e la nostra incapacità a raggiungerli.

Che abbiamo fatto molta strada è innegabile, ma combattiamo ancora: come sarebbe se la realizzazione fosse piena?».

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