Il barile di petrolio a 14 dollari. Franceschino mise dentro la porta del Foggia il pallone calciato con il sinistro. Di Pietro Antonio ancora piemme, portandosi anch'egli avanti con il lavoro, lanciò la proposta di una soluzione legislativa della crisi affidata, la soluzione ovviamente, ai magistrati scatenando proteste, dubbi, dibattiti. E lo spagnolo Indurain fece girare così velocemente le sue gambe in bicicletta da stabilire il nuovo primato dell'ora. Erano storie di un altro secolo, trattavasi dell'anno, per la cronaca, millenovecentonovantaquattro. Fu il primo gol di Totti Francesco, lo sbarbato aveva diciottanni e già si sentiva profumo di campione. Dieci anni dopo il petrolio stava già a livelli schifosi, di Indurain si erano ormai perse le tracce, Di Pietro Antonio, non più magistrato, tirato per la giacchetta si era messo a fare altro, il solo a restare coerente con se stesso fu il Totti medesimo, centesimo gol e avanti così. Ieri a Firenze, duecento e uno, non aggiungo asterischi sul barile di greggio e sull'onorevole checcciazzecca. Totti, dunque, ieri, oggi e domani, sinistro, destro, cucchiaio, stiletto, testa, gol sempre, la Roma e Roma, il gladiatore e il pupone, il dito pollice succhiato in bocca e le gambe divaricate, dopo che il pallone ha appena gonfiato la rete, il pupone si ripresenta, negli spot televisivi e in campo, uguale, sfacciato, finge di essere tonto e fa fesso il resto della comitiva. Lo davo per finito, o meglio sfinito, il calcio logora chi non ce l'ha e negli ultimi anni, lentamente, volgarmente, questo calcio di muscoli e di tattiche, ha sacrificato la genialità, il dribbling, il fosforo. Totti ha ingoiato la polvere altrui, ha visto passare cadaveri lungo il Tevere, con gli allenatori della "maggica" ha avuto storie di amori e di disprezzo, li ha coccolati, asserviti e poi rispediti al mittente. Del resto la legge del football è uguale dovunque: gli allenatori passano, restano i calciatori, quelli che scrivono la cronaca prima e la storia dopo. Totti è uno di questi, il sesto di sempre nel campionato nostrano, dopo Piola (290), Nordahl (225), Meazza (218), Altafini (216), Roberto Baggio (205). Roba fine, gente che ha vissuto metà della propria esistenza nei sedici metri finali del campo di gioco che sono la sala giochi, la casina delle api, il parco di divertimenti, il momento vero del football. Che cosa è mancato e ancora manca a un campione così? Ha vinto lo scudetto, ha vinto il titolo mondiale, ha giocato con due sole squadre, la Roma e la nazionale azzurra, avrebbe potuto raccogliere onori e denari se avesse accettato offerte sontuose, ha evitato le metropoli del nord, intuendo che quello che gli garantiva la capitale nessun'altra femmina, città al mondo gli avrebbe assicurato. Il Tottismo lo ha pure fregato e frenato, non aiutandolo a completare una carriera meravigliosa ma, sinceramente, con il limite di una squadra che non ha avuto la visibilità e le soddisfazioni internazionali indispensabili per la definitiva maturazione. Il Tottismo romano e romanista, dunque, come è accaduto e ancora accade per Del Piero e il Delpierismo, l'incapacità di capire che si è grandi ma si poteva e si doveva essere ancora più grandi, c'era il talento, c'era la qualità.
Comunque Totti, questo Totti, meno dinamico con le gambe, più veloce con il cervello, basta e avanza per rimettere i conti in ordine, i suoi e quelli della sua squadra. «Non è finita qui» ha detto ieri, dopo il duecento e unesimo. Ci mancherebbe pure, Franceschino. Come direbbe lui, a Ilary e agli avversari: Ahooo, famolo ancora.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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