Da 36 anni con la moglie lobotomizzata «ma non ho mai pensato di farla finita»

«Con una moglie malata in casa ci vuole più coraggio a scappare che a restare», mi dice Giuliano Fiorani. Conobbe la sua Gabriella 45 anni fa. «Da allora non ci siamo più mollati, né per un giorno, né per una sera, mai, mamma mia che roba». È stata l’unica donna della sua vita. La chiama «principessa», perché la prima volta che la incontrò lei vestiva uno scamiciato in principe di Galles, «e calzettoni color bordeaux». Fu amore a prima vista. Era l’antivigilia di Pasqua del 1962, Gabriella Donati aveva appena 16 anni. Oggi è come se ne avesse quattro di meno, invece dei 62 che l’anagrafe le assegna. «Io ne ho appena fatti 67, ma lei ha l’età mentale di una bambina di 12. Al mattino me la ritrovo che dorme con la testa appoggiata sul mio petto, come fanno i figli quando s’infilano nel lettone dei genitori».
Nel 1971 la principessa subì un intervento chirurgico che solo a nominarlo fa inorridire: lobotomia. È un’operazione neurochirurgica mediante la quale si recidono le fibre nervose di un lobo cerebrale o si asporta una porzione di encefalo. Fu ideata nel 1925 e presto abbandonata per le devastanti conseguenze sulla personalità dei pazienti, che ne usciva annientata. L’ultimo a esservi sottoposto, quattro anni dopo Gabriella Donati, credo sia stato Randle McMurphy, il finto matto interpretato da Jack Nicholson in Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ma quello era cinema, finzione ispirata a un romanzo. Questa è realtà quotidiana. Sullo schermo il capo indiano Bromden, raffigurato come un gigante buono e pietoso, prima d’evadere dal manicomio soffocava McMurphy con un cuscino. Cosicché la morale suggerita dal film sembrava essere la seguente: per restituire la dignità perduta a una larva d’uomo, bisogna spegnere la vita che non è più vita. L’esatto contrario della morale che sorregge Giuliano Fiorani da 36 anni, sette giorni su sette, 24 ore su 24. Per dedicarsi totalmente a lei ha lasciato il lavoro. Dopo l’avviamento professionale è stato operaio all’acciaieria Ilva di Lovere, poi in officina, poi al tubificio Dalmine di Costa Volpino, dove tra forni e laminatoi s’è buscato un’asma cronica da far paura, «devo girare col Ventolin aerosol in tasca, altrimenti potrei morire asfissiato».
I due coniugi abitano a Lovere, l’ultimo paese sulla riva bergamasca del lago d’Iseo. La principessa passa le giornate seduta in poltrona, con lo sguardo fisso sulla finestra della cucina, da dove può vedere la collina di San Giovanni. Non sa che appena dietro c’è il Piano della Palù, «da iscritta al Cai conosceva i sentieri di quella montagna meglio delle vie di Bergamo, l’unica volta che io ci sono stato, nel 1964, mi ci portò lei». Il più delle volte suo marito la trova che dorme con la testa reclinata sul petto.
Gabriella ha lo sguardo stupefatto dei bambini. Le chiedo come sta. «Bene, mi stanco», risponde, ma ci vuole il marito per tradurre il grammelot che le esce a fatica dalle labbra. Le chiedo che cosa pensa dei medici. «Male, perché sono imbroglioni. Non mi hanno curata. Forse era meglio evitare». Sottinteso: l’intervento, la lobotomia.
Ogni mattina Giuliano Fiorani prende sotto braccio la sua principessa e le fa scendere i 72 gradini in pietra di Sarnico che separano il loro modesto appartamento, all’ultimo piano di una casa di ringhiera, dal lungolago. C’impiega un buon quarto d’ora, anche di più, «però è importante, altrimenti le si atrofizzano i muscoli delle gambe». Deve tenerla stretta a sé per tutto il tempo della passeggiata, «non ha più il senso dell’orientamento, cammina come gli ubriachi, mi spinge verso destra. A volte ci scherzo: Gabriella, ma ti vuoi liberare di me buttandomi giù dal marciapiede, sotto una macchina? Se qualcuno la saluta, lei risponde guardando in un’altra direzione».
La principessa pesa appena 40 chili. «Dipendesse da lei, non mangerebbe mai. Devo imboccarla, un cucchiaino alla volta, come si fa nello svezzamento. Cerco d’ingolosirla, cucino cose che le piacciono oppure vado a prendere qualche specialità in rosticceria. Ne pilucca un pezzetto, sembra un uccellino». Non è che abbia perso le facoltà intellettive, ma le esercita in modo disordinato, imprevedibile, infantile. Prigioniera di uno stato d’amnesia permanente, sigillata nella sua prigione di autismo, galleggia nel vuoto. Nessuno può stabilire quanto capisca e che cosa capisca né prevedere come reagirà a un discorso o a uno stimolo. «Se le metto in mano le parole crociate, l’unica cosa che sa fare è copiare: va subito a controllare le soluzioni alla fine del fascicolo e trascrive le definizioni una alla volta. Era una ricamatrice appassionata e velocissima. Adesso, dopo tre anni, continua ad arrovellarsi su 30 centimetri di lavoro a uncinetto, sempre gli stessi, ha consumato lo schema fino a bucarlo a forza di contare e ricontare i punti e segnarseli con la matita. Sei la mia Penelope, le dico».
Gabriella Donati fu lobotomizzata per farla guarire dalle terribili crisi epilettiche che s’erano manifestate nel 1969 dopo la nascita del suo unico figlio, Luca, che oggi fa il maître a Piacenza ed è sposato con una brava ragazza che ha dato ai Fiorani tre nipotini di 12, 10 e 4 anni. «Le avevano diagnosticato un ematoma che premeva sul lato destro del cervello, forse se lo portava dietro fin dalla nascita, avvenuta col forcipe. I medici sostenevano che occorreva intervenire chirurgicamente per rimuovere il grumo di sangue. Le aprirono la testa. Quando la pettino, sento ancora il solco nella scatola cranica».
Come conobbe sua moglie?
«Era segretaria nell’officina meccanica dove mi presentai il giorno dopo essere tornato dal servizio militare a Silandro, 5° reggimento artiglieria da montagna, brigata alpina Orobica. Vedo in ufficio questa bella fanciulla e le dico: ragazzina, dov’è il Baldini? Era il titolare».
E poi?
«Fui assunto. Il mio tavolo di aggiustatore meccanico era il più vicino all’ufficio. La Gabriella faceva avanti e indrè tra reparto e magazzino con le bolle di consegna. Trascorsa una settimana, passandomi accanto mi fa: “Guardi che io non sono una ragazzina”. Ah sì? E quanti anni hai? “Sedici”. A che ora smonti stasera? “Alle 5”. Va bene, aspettami alle 5, allora. Abbiamo cominciato a uscire insieme. Sette anni di fidanzamento e poi il matrimonio».
Come si manifestò la malattia?
«Con crisi epilettiche sempre più frequenti. A volte s’accorgeva che stavano arrivando e s’aggrappava al tavolo. Altre volte cadeva per terra e si spaccava tutta. Cominciarono a imbottirla di medicine: Gardenale, Luminale, Depakin. Droghe. Il neurologo teneva il ricettario chiuso in cassaforte. Ma Gabriella continuava a peggiorare a vista d’occhio. Il bambino non voleva più stare al collo della madre, era terrorizzato. Qualche volta sono finiti per terra assieme. Al ritorno dal lavoro cercavo i bozzi sia sulla testa di lei che di Luca per capire che cosa fosse successo in mia assenza. Trovavo le spugne intrise di acqua e sangue nel lavandino».
Perché decise di farla operare?
«Lo consigliavano i medici. “Le togliamo una macchietta che preme sul cervello e vedrà che entro sei mesi avrà una moglie come tutte le altre”, mi spiegò il professor Cassinari, primario di neurochirurgia all’ospedale di Bergamo, pace all’anima sua».
Non le parlò di lobotomia?
«No. E comunque io a quel tempo manco sapevo che cosa fosse, una lobotomia. Cominciai a spaventarmi quando il dottor Paoli, l’aiuto del primario, dopo l’intervento mi disse: “Non preoccuparti, Giuliano, abbiamo raschiato ben bene il cervello”. La misero in rianimazione. Dopo tre giorni me la fecero vedere attraverso il vetro, tirando una tendina: caddi per terra io. Era completamente pelata, avvolta in un lenzuolo come i morti, con fili e cannucce che le uscivano da tutte le parti del corpo. Appesi ai cateteri, al posto delle sacche di raccolta c’erano due guanti da chirurgo nei quali drenavano sangue e liquidi d’ogni colore. Appena le dita dei guanti erano gonfie, li sostituivano. Se non me l’avesse indicata un’infermiera, non sarei riuscito a riconoscere la mia Gabriella da uno qualsiasi degli altri cinque che stavano con lei in rianimazione».
Tornata a casa, diede segni di miglioramento?
«Per niente. Avevo portato in ospedale una donna e mi era stata restituita una bambina. La sua prima fase fu da alunna dell’asilo: “Voglio tornare dalla mia mamma”. “È da rieducare”, sentenziò Cassinari. Dopo sei mesi mi ripresentai nel suo studio: professore, succede così e così, non migliora, quanto tempo ci vorrà ancora? Lui, accompagnandomi alla porta, concluse gelido: “Se ritiene che vi sia qualcosa che non va in ciò che ho fatto, si rivolga a un avvocato”. Scendendo per le scale, m’interrogavo: ma perché mi ha detto così? che significa? Nel riferire la frase a mia suocera, scoppiai a piangere. Non capivo».
Quando capì?
«Parecchi anni dopo. Dovendo presentare domanda per la pensione d’invalidità, chiesi la cartella clinica di mia moglie all’ospedale. E lì lessi a quale intervento l’avevano sottoposta: “Lobotomia temporale destra”».
Sciagurato quanto inutile.
«Infatti le crisi epilettiche diventarono sempre più forti e frequenti. Un sabato mattina misi Gabriella sulla corriera: voleva andare a trovare i suoi a Bergamo. Io avrei atteso che Luca uscisse di scuola e l’avrei raggiunta nel pomeriggio con lo stesso mezzo per passare il fine settimana dai suoceri. Non arrivò mai a destinazione. Si presentarono a casa qui a Lovere i carabinieri: “L’autista del pullman, giunto al capolinea, ha trovato sua moglie addormentata. L’ha scossa per farla scendere, ma non s’è svegliata. Ha chiamato l’ambulanza...”. Era in coma. Un mese e mezzo in rianimazione. Non me la lasciavano vedere. Chiedevo notizie in continuazione. “Non sappiamo nemmeno se arriverà a domani”, era la risposta».
Intanto chi si prendeva cura di Luca?
«Povero bambino. Mi chiedeva: “Dove vado oggi? Chi viene a prendermi a scuola?”. Gli lasciavo magari un cartoccio di affettato e due panini in cucina. Lui tornava da solo e s’arrangiava. Io non ho mai preso la patente, per cui dovevo correre da un ospedale all’altro servendomi dei mezzi di linea».
Una volta dimessa, chi custodiva sua moglie in casa?
«Nessuno. Telefonavano i vicini in officina: “Dite al Fiorani di correre, la moglie s’è fatta male, l’abbiamo trovata per terra”. Nel 1988 fui costretto ad abbandonare il lavoro. Non potevo più lasciarla neppure per un attimo. Ha smesso di cucinare dopo essersi scarnificata un braccio con una padella rovente. Lo vede questo caschetto da ciclista? Quando devo uscire di casa per cinque minuti, glielo faccio indossare, così almeno non si rompe la testa se cade mentre va in bagno. Io dormo a intervalli, non più di quattro ore per notte, perché le crisi epilettiche le vengono anche nel sonno, e allora bagna il letto e bisogna cambiare le lenzuola».
Non poteva ricoverarla in un istituto?
«Un mio parente me lo propose: “Preparo io le carte e ti faccio mettere via la Gabri”. Fatti mettere via tu, risposi offeso. Ma capisco che voleva solo aiutarmi. Potevo far le valigie, andarmene. Avrei abbandonato un problema. Non me la sono sentita. È sempre stata tanto buona con me».
Che cosa non va nell’istituto?
«Il pensiero di lasciarla in mano ad altri che magari la trattano male, il non averla vicino. È la mia ragazza. Spero di non venire a mancare: non voglio lasciarla in difficoltà. Ho lavorato e risparmiato molto perché possa restare a casa sua. Così riuscirà a occuparsene Luca, quando io non ci sarò più».
Suo figlio in che modo ha vissuto questa tragedia?
«Ha sofferto. Non la chiama mamma. La chiama Gabri. Ma tutti i mesi viene a trovarla. È un bravo ragazzo. Per fortuna a 22 anni s’è sposato e ha raggiunto un suo equilibrio».
E i nipotini?
«Quando dico loro di dare un bacio alla nonna, scappano. Come faceva Luca da piccolo. Capiscono che qualcosa non va. Io li ricatto: vedete questa macchinina, questa bambola? Ve le ha comprate la nonna. Allora si rassegnano a darle un bacino».
Perché un matrimonio deve durare in eterno?
«Due persone che si amano... È bene che duri il più a lungo possibile».
Crede che sua moglie soffra?
«Gabriella vive in un mondo tutto suo. Pensa che siano gli altri ad avere dei problemi».
Spera che un giorno guarisca?
«Ormai non è più possibile. L’ho portata dai migliori specialisti, e anche da una pranoterapeuta di Bergamo, che m’è costata un bel po’ di soldi. Dopo averle imposto le mani, la signora ci mandava da un neurologo di sua fiducia, che affermava di riscontrare qualche segnale di miglioramento e mi raccomandava di non interrompere i trattamenti. Non ci ho più creduto quando un giorno, in assenza della pranoterapeuta, a palparla è giunta la figlia della guaritrice. Sarà mica una dote ereditaria?».
S’è mai augurato che sua moglie muoia?
«Nooo! È meglio sacramentare e piangere ma averla qui. Sono sincero: fino a sette-otto anni fa ho acceso molte candele e mandato offerte ai frati di Sant’Antonio e a Padre Pio, perché guarisse. Poi ho smesso d’andare in chiesa».
Perché?
«Per lazzaronismo. A messa sentivo parlare di tutto tranne che del motivo per cui mi trovavo lì».
È mai stato sfiorato dall’idea di porre fine ai giorni di entrambi?
«Per l’amor del cielo! Abbiamo il lago qui fuori, però mai, mai! Con quello che costano i funerali al giorno d’oggi. Non vogliamo far piangere i parenti».
Di come è morto Piergiorgio Welby che cosa pensa?
«Avrà avuto i suoi buoni motivi. Ma il medico che s’è prestato e il cancan che i radicali ci hanno imbastito su... Io questo Pannella non lo capisco. Digiuna per la vita e vuole l’aborto».
Per i radicali quella di sua moglie è non-vita.
«La mia Gabriella è attaccata alla vita, e come c’è attaccata! E io, nonostante le imprecazioni e le lacrime, me la tengo stretta, questa vita. Quattro anni fa, a una visita medica dell’Inps per la revisione dell’invalidità, lo psicologo insisteva per farle dire che cosa significa l’aggettivo glabro. Io mi sono permesso di dissentire e lui m’ha redarguito: “Perché sua moglie migliori, deve entusiasmarla!”. Tornato a casa, s’è accorta che avevo i lucciconi agli occhi e ha voluto rincuorarmi: “Non stare ad ascoltare quello là”. E una persona così me la chiamate cretina?».
In che cosa trova conforto nelle sue notti di dormiveglia?
«Nelle ricerche storiche. Mio padre, operaio all’Ilva, fu epurato perché era stato nella guardia repubblicana della Rsi. Non aveva commesso alcun crimine. Nell’aprile del ’45 si consegnò ai partigiani, che lo rinchiusero nelle cantine della canonica. Ogni mattina la perpetua lavava via il sangue dei torturati con le secchiate d’acqua. Sei legionari della Tagliamento che erano reclusi con lui furono fucilati al cimitero. Altri due, feriti, furono prelevati all’ospedale di Lovere e affogati nel lago. Uno era Emilio Lepera, fratello dell’avvocato Giovanni Lepera di Roma, il legale di Giampaolo Pansa. Ho fornito io al giornalista le prove dei misfatti che ha raccontato nel Sangue dei vinti, stragi dimenticate come quella di Rovetta, 16 chilometri da qui, dove 43 della Tagliamento che s’erano arresi furono trucidati dai brigatisti della Garibaldi. Ho già scritto tre volumi. L’ultimo, Bagatelle partigiane, è rimasto nella vetrina della libreria Mondadori di Lovere per un giorno: al secondo l’avevano già tolto. Pressioni politiche, mi è stato riferito. Ci sono abituato. Sono cresciuto in un quartierino rosso dove mi davano del fascista e del ladro. Morivamo di fame. Mio padre, dopo essere stato rilasciato dai partigiani, fu arrestato dai carabinieri perché una lettera anonima lo accusava di costruire armi di legno – di legno! – per i fascisti ancora in circolazione: con la complicità di un amico falegname, stava solo forgiando di nascosto gli zoccoli per i suoi quattro figli, come nel film di Ermanno Olmi.

Una notte un contadino ammazzò a fucilate uno di questi “fascisti” che nell’agosto del ’45 andavano per cascine a rubare polli: era un partigiano che indossava una camicia nera».
Qual è il senso della vita, signor Fiorani?
«Amarla, la vita. E saperle dare un senso».
(362. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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