Addio Saigon, hai vinto tu. Ecco cosa resta del "mio" Vietnam

Un reportage di Egisto Corradi pubblicato il 16 giugno 1975, alla fine della guerra nel Vietnam

Addio Saigon, hai vinto tu. Ecco cosa resta del "mio" Vietnam

Ha avuto ragione Saigon alias Ho Chi Minh, a prenderla come veniva, a considerarsi una città aperta, a continuare ad andare a spasso e al cinema tra un’ondata di spavento e l’altra. Le doglie del trapasso sono state lunghe e penose; e nelle ultime tre settimane hanno raggiunto momenti di parossismo. Ma il passaggio stesso è avvenuto in modo indolore. Poteva andare cento volte peggio. Diceva un amico vietnamita: «Sono terrorizzato dalla prospettiva dei giorni di vuoto di potere. Quando vedrò un carro armato nord-vietnamita sotto la finestra di casa mia, allora la paura mi passerà. Dico la paura di morire per mano di un teppista, di un saccheggiatore, di un fanatico. So che poi verranno tempi duri, eccome. Ma adesso, quel che conta è sopravvivere».

Era, quella, la posizione dei più. Durante anni ed anni, Saigon è passata quasi indenne attraverso il ferro ed il fuoco di una guerra che nel resto del Vietnam selvaggiamente infieriva. Le ha fatto da scudo la sua stessa inerme mole, la moltitudine dei suoi tre milioni di abitanti. Una città di gommapiuma. Per buona sorte l’interregno è durato poche ore, anche se casi di saccheggio si erano avuti già parecchi giorni prima, immediatamente dopo la partenza di funzionari ed impiegati americani. Immediatamente dopo vuol dire da trenta secondi ad un minuto dopo, non oltre. Evidentemente c’era chi stava alla posta, chi guatava. Ch’io mi sappia, tolta qualche piccola dimostrazione montata ad arte nelle ultime ore, non c’è stato americano cui sia stato torto un capello. Io stesso mi sono trovato negli ultimi giorni prima della fine a camminare nei sobborghi più poveri della capitale. Dai grandi ero guardato con indifferenza o con un’ombra di simpatia. I bambini, senza eccezioni, mi accompagnavano festosi com’era sempre accaduto da anni.

A mio parere, nella coscienza popolare, la posizione nei riguardi degli americani era la seguente: «Gli americani possono avere sbagliato in molte cose, hanno anzi sicuramente sbagliato molto. Ci hanno portato al massacro, ma anche loro si sono fatti massacrare. Ad ogni modo hanno cercato di darci la possibilità di non passare sotto un regime comunista. Se non vi siamo riusciti è dipeso anche da noi, in parte. Ma generosi nel dare e nel lasciarsi derubare lo sono stati, non dimentichiamolo. Li rimpiangeremo, un giorno».

Del trapasso indolore va dato merito in parte ai nord-vietnamiti, ai quali non conveniva di certo entrare tra le rovine di Saigon, e in parte al presidente-per-due-giorni Van Minh. Ma anche al senso di fatalismo dei vietnamiti, alla loro ripugnanza a battersi contro i comunisti o a fianco dei comunisti, pro Thieu o contro Thieu. Parlo qui dei civili di Saigon, non delle forze armate per le quali il discorso va posto differentemente. Un giornalista comunista notava qualche giorno fa: «Saigon non si è difesa, non ha reagito con le armi al sopravvenire dei vincitori».

«Che ciò non sarebbe mai avvenuto - ho avuto modo di ribattergli - l’avevo scritto più volte. L’ultima anche una settimana prima della caduta della città. Si capiva benissimo che Saigon non sarebbe mai stata né una Stalingrado né una Berlino, che da nessuna finestra sarebbe stato sparato un colpo di fucile. Ma alla stessa stregua si deve riconoscere che non c’è stata la grande insurrezione popolare auspicata, preannunziata e minacciata. Nulla». Saigon, ventre molle e corrotto del Vietnam, la città che ha certo economicamente più profittato della guerra, ha pagato molto meno di quanto abbiano pagato altre minori città e infinitamente di meno di quanto abbiano pagato le campagne. Pagherà in avvenire, non c’è dubbio.Ma adagio, progressivamente. Ce ne vorrà, del tempo, prima che Saigon diventi la città di Ho Chi Minh. Controllare radio, cinema, giornali e televisione è facile, è stato facile. Meno facile sarà ad esempio prendere decisioni per il milione di motorette e per il centinaio di migliaia di automobili che vi circolano, che vi circolavano. O far ritornare alle campagne il paio e più di milioni di profughi che vi si sono ammassati durante la guerra. O ridare alla città un’austerità di costumi compatibile se non uguale a quella di Hanoi, nel Nord. Come potrebbero sussistere in un solo Paese una Sparta e una Gomorra? Nel Sud c’era stato un disordinato e convulso avvio al consumismo. Sarà duro tornare indietro.

Come cronista sono stato forse una quindicina di volte nel Vietnam del Sud, dal 1965 all’aprile scorso, soggiornandovi ogni volta da un mese a due. Tutt’insieme press’a poco un paio d’anni, una fetta di vita. Ho viaggiato molto il Paese, dal 17° parallelo alla punta estrema del Delta, sempre per vedere la guerra da vicino. Parecchie volte ho avuto paura. In alcune occasioni sono stato preso da un vero e proprio panico animalesco, paralizzante. Una fu quando mi capitò di trovarmi in un convoglio attaccato. Un sasso o un proiettile aveva forato una gomma di una jeep, l’ultima del convoglio, sulla quale viaggiavo; e noi si cambiò la ruota a velocità di Formula 1, con il cuore in gola, mentre da un’altra jeep che si era fermata ad aspettarci si sparava nel fitto del bosco, alla cieca. Un’altra volta fu arrivando in elicottero nella piazzaforte assediata di Khe Sanh sotto il tiro dei mortai nord-vietnamiti e, due giorni dopo, ripartendone tra i rottami di decine e decine di elicotteri ed aerei abbattuti. Un’altra volta ancora fu in Cambogia, il giorno che con un giornalista svedese, causa l’improvviso crollo di una specie di fragile fronte, ci trovammo decine di chilometri dentro una zona che i kmer rossi stavano ormai occupando. Nei villaggi che traversavamo a centoventi all’ora erano già stati esposti grandi ritratti del principe Sihanuk incorniciati in ghirlande di fiori e sventolavano bandiere rosse; ma soltanto in un caso ci spararono dietro qualche fucilata. Lo svedese era meno spaventato di me. «Se ci prendono - disse ad un certo punto - io ho questa tessera». Era una tessera del Fronte di liberazione della Cambogia. Più avanti, ad un angoscioso rallentamento imposto da tronchi d’albero messi a lisca di pesce sulla strada, lo svedese disse ancora: «Ho dell’altro da mostrare». E tirò fuori una grande fotografia piegata in quattro che lo effigiava in atto di intervistare nientemeno che Ho Chi Minh. Con i khmer rossi non credo che anche la fotografia di Ho Chi Minh sarebbe valsa granché. Di ventisette giornalisti scomparsi tra la primavera e l’estate del ’70, non si è più saputo nulla; eccetto che dei tre o quattro dei quali sono stati rinvenuti i cadaveri. (...)

Oggetti-ricordo di tanti soggiorni ne ho pochi. Meglio così. Ho raccolto via via e conservato un paio di centinaia di libri sulla storia politica e militare del Vietnam.

I più vecchi, anche di settanta anni fa, sono di autori francesi; gli altri, i più, sono americani. Avessero tenuto conto, gli americani, della esperienza francese espressa in opere come quelle di un Paul Mus, di Bernard Fall e altri, se non dei rapporti e degli studi militari, avrebbero evitato qualche errore. Ma non so se per disdegno o diffidenza, hanno voluto fare e fatto tutto da sé.

Ho un’uniforme americana da battaglia inventata apposta per il Vietnam, leggerissima, di tessuto sopraffino. Gli americani, per motivi di sicurezza propria ed altrui, esigevano che i cronisti al seguito delle operazioni indossassero uniformi americane, naturalmente senza simboli. Ma non le vendevano né le regalavano: si compravano nuove di zecca al mercato nero. Un mercato nero gigantesco nel quale si poteva comperare di tutto, da un generatore elettrico ad una attrezzatura completa per un ospedale da campo. L’ormai stinta uniforme che posseggo mi fa tornare alla mente che nei primi mesi euforici d’intervento, quando tutto lasciava credere che la campagna sarebbe durata pochi mesi e sarebbe stata una vera passeggiata militare, i G.I. men avevano, di loro iniziativa personale, cominciato a vestirsi in parte fuori ordinanza. Alla western, per intenderci: cinturoni, cappelloni, cartucciere, fondine borchiate.

Alcuni sembravano tanti Buffalo Bill e devo ritenere che, nel loro intimo, fossero giunti nel Vietnam pensando agli indiani di Toro Seduto. Tutta questa buffetteria, però, non veniva dagli Stati Uniti. Erano stati i vietnamiti a comprendere che agli americani sarebbe piaciuta, e furono parecchi gli artigiani che fecero grossi affari.

La moda western durò poco, un tre o quattro mesi, e si estinse da sola. Non occorse di più per far capire agli americani che i vietcong non avevano niente a che vedere con gli indiani. L’inventario dei miei oggetti-ricordo del Vietnam annovera ben poco d’altro. Un accendino a benzina acquistato sulla portaerei «Coral Sea», una tazza con l’emblema della portaerei «Constellation» acquistata allo spaccio della stessa unità, una borraccia militare americana comperata anch’essa al mercato nero, una razina grande quanto una noce «prelevata» tra le rovine in fiamme del palazzo imperiale di Hué.

Mi riaffiora alla mente, ora, che uno dei miei libri sul Vietnam è una raccolta di bellissime fotografie a colori. Vi si vede il Mekong in un punto in cui sembra un mare, i bufali d’acqua che arano nel fango delle risaie, le orchidee che crescono spontanee nella giungla così come le avevo ammirate sulla strada per Dalat, le abbacinanti spiagge di Danang, l’incantevole baia di Cam Ranh, forse una delle più belle baie del mondo. Leggo sui giornali, in questi giorni, che i sovietici avrebbero chiesto ad Hanoi di impiantarvi una base navale. Fossi in loro non lo chiederei, per scaramanzia. Fu infatti nel 1905 che la flotta russa guidata dall’ammiraglio Radscesvenski rimase per qualche giorno alla fonda nella baia di Cam Ranh dopo aver circumnavigato l’Africa e poco prima di andarsi a fare colare a picco nello Stretto di Corea dalla flotta giapponese di Togo. Bene, non posso dimenticare un’incisione cinese di un paio di secoli fa regalatami dal mio amico Philippe Franchini, pittore, padre corso, madre vietnamita e moglie cinese.

L’incisione reca in ideogrammi la frase di un antico generale cinese, mandato in esilio nella allora provincia cinese del Tonchino dopo aver avuto la peggio in una lunga guerra. Dicono gli ideogrammi: «Ridatemi le mie vallate, ridatemi le mie montagne». È venuto il momento di farla incorniciare, penso.

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