Il ’68, formidabile fonte di paradossi

Il Giornale ha aperto un dibattito sul '68. Fra i contributi finora apparsi mi riconosco, come taglio generale, nella riflessione di Michele Brambilla. In altra sede anche Gianfranco Fini ha portato avanti una provocazione-riflessione sulla destra e il ’68. Che a mio avviso non va né mitizzato («formidabili quegli anni») né demonizzato. È stato un avvenimento di portata internazionale (è esploso negli Usa, in Germania, in Francia, nella Cecoslovacchia comunista, in Italia) e si è poi diramato in mille direzioni e ha avuto molteplici sbocchi, taluni positivi, altri negativi.
Intendo, però, fare una premessa «provinciale» che riguarda solo l’Italia: qui nel corso degli anni ’50 si erano scontrati un centrismo degasperiano-saragattiano-malagodiano (arroccato per quello che riguardava il diritto di famiglia - «l’amante» di Fausto Coppi fu arrestata - la censura - vedi la vicenda della «Zanzara» - e che per altro verso aveva difeso la libertà nei suoi aspetti fondamentali e la collocazione dell’Italia in Occidente) e un frontismo comunista-socialista che aveva l’Urss come modello. Dal 1956 in poi da un lato era riemerso l’autonomismo socialista di Nenni e Lombardi, dall’altro lato era avvenuta un’evoluzione della Dc guidata da Moro e Fanfani. Tutto ciò aveva prodotto il centro-sinistra, la prima vera esperienza riformista dopo quella giolittiana. Il riformismo del centro-sinistra si era sviluppato negli anni ’62-63 sotto la guida di Amintore Fanfani - un grande uomo di governo, un autentico riformista, poi un pessimo segretario della Dc - sotto l'azione politica di Nenni e lo stimolo intellettuale e programmatico di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti.
Nel ’63-64 si manifestò una forte reazione della destra Dc guidata da Segni, Rumor, Bisaglia, mediata da Aldo Moro (grande segretario della Dc e pessimo presidente del Consiglio). A un certo punto il gruppo dirigente democristiano usò anche un certo tintinnio delle sciabole (il generale De Lorenzo e il Piano Solo). Il risultato fu che fu fortemente ridimensionato il riformismo. Gli anni '64 e ’68 furono scarsamente innovativi. Di conseguenza sul '68 italiano pesò anche questa precedente sconfitta del riformismo democristiano e socialista. Detto tutto questo, condivido con Brambilla il rilievo che nel '68 ci fu una positiva liberalizzazione dei costumi, un nuovo rapporto uomo-donna, la crisi di un certo autoritarismo culturale, giuridico e accademico. Da quel filone derivarono anche la vittoria del referendum per il divorzio nel 1974 e la legislazione sull'aborto, la legge 194, che io ritengo tuttora valida.
Dopodiché, però, come spesso avviene nel nostro Paese, non si approdò a un punto di equilibrio. Si passò dall'eccesso di autoritarismo degli anni '40-'50 al permissivismo più totale. Nelle scuole, nelle Università andò in crisi la serietà degli studi. Poi mentre in altri Paesi il movimento durò pochissimo, in Italia durò altri 10 anni e divenne qualcosa di diverso: dal '68 studentesco, passammo al '69 operaio. Poi alla sinistra del Pci (dove Togliatti su ordine di Stalin aveva fatto dagli anni quaranta in poi una scelta legalitaria, salvo far organizzare sottotraccia una Gladio rossa) emerse tutto ciò che fino ad allora era stato tenuto sommerso e compresso: la «rete secchiana» e quella di Feltrinelli, la contestazione estremista-movimentista - fondata sul recupero di tutte le icone storiche del comunismo, da Lenin, a Stalin, alla Rosa Luxembourg, specie a Mao Tse Tung -. Tutto ciò si «organizzò» nei «gruppuscoli»: Lotta continua, Avanguardia operaia, Potere operaio, Servire il popolo, Lotta comunista, il Movimento studentesco di Milano, ognuno con il suo servizio d’ordine pronto allo scontro con la polizia e i fascisti. Per la maggior parte dei giovani impegnati in questa «surenchère» politica e culturale, a un certo punto tutto ciò finì nella normalità della vita, ma per almeno un migliaio di essi, invece, subentrò la scelta della clandestinità armata. Di qui le Br e Prima linea. Il prolungamento solo italiano del '68 arrivò fino al '77 e furono guai. Nel '68 c'era una larga componente ludica, trasgressiva, futurista (basta pensare agli «uccelli»). Invece il '77, Bologna a parte, (i Bifo, il Dams, Radio Alice ecc.), fu cupo, guerrigliero. Per alcuni anni in Italia ci furono circa mille terroristi e 30mila simpatizzanti.
A destra sorsero i Nar e i golpisti. All'origine anche i giovani dell'Msi erano nel movimento magmatico e confuso del '68. Poi subentrò la scelta d'ordine di Almirante e Caradonna. Fini ha contestato questa scelta che emarginò i giovani missini senza dar loro neanche un ruolo di conservazione culturale e politica seria e profonda. Poi emersero gli odiati anni '80 che liquidarono tutto ciò e per questo e per altro furono anni positivi. In sostanza il '68 espresse il massimo della contraddittorietà: fu libertario e autoritario, libertino-trasgressivo ma poi diede vita a gruppi terroristi, liberatorio di energie intellettuali ma anche creatore di un nuovo conformismo. Nelle aziende si passò da un eccesso di autoritarismo padronale, tipico degli anno '50-'60, a una contestazione permanente che, ad esempio, rese molte fabbriche, in primo luogo Mirafiori, ingestibili e ingovernabili.
Insomma, a nostro avviso, il «'68 lungo» in Italia prima ha rappresentato un fattore di liberazione e in una seconda fase una causa di crisi, di scontro.
Un'ultima osservazione. A conferma che in Italia tutti i ruoli sono intercambiabili, da anni una parte dei «sessantottini» - specie quelli provenienti da Lotta continua - controlla i media, le tv, i grandi quotidiani ecc.

e in certi momenti e in certe occasioni (vedi il caso Sofri) si muove come una lobby potentissima. Anche in questo caso emerge un bel paradosso: una parte dei contestatori di ieri, oggi sono manager della comunicazione dei poteri forti, vedi, in primo luogo, la Rcs.
*vicecoordinatore di Forza Italia

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