Le 700 divise e la carica delle amazzoni

Nel suo leggendario armadio di settecento divise, ne ha pescata una nera con le mostrine rosse e le spalline dorate, perfetta per l’occasione. A mezzogiorno, quando spunta dall’aereo, con quei capelli neri che dal berretto gli scendono sul collo, con quel filo di barba, sembra Michael Jackson in concerto. Invece è proprio lui, Muammar Gheddafi, il Colonnello, la Guida, l’ex Grande Satana nemico giurato di Ronnie Reagan e dell’Occidente intero, «embargato» per vent’anni e adesso campione del moderatismo arabo, presidente dell’Unione africana, «fratello» dell’Italia e del suo premier Silvio Berlusconi.
Scende la scaletta con calcolata lentezza, circondato dalle sue panteresche amazzoni in divisa kaki e basco rosso, la sua guardia del corpo tutta femminile addestrata nella Ddr e pronta a tutto per lui. È una visita storica, è dunque il momento adatto per l’ultima provocazione. Sulla sinistra il petto del Leader è ricoperto di medaglie. Sulla destra, invece, appeso come un badge, pende una grande foto seppiata di Omar al Muktar, il leone del deserto, il capo della rivolta anticolonialista, ripreso in catene il giorno dell’arresto l’11 settembre 1931 da parte degli squadroni fascisti che poi lo fucileranno. E, sorpresa, dall’Airbus libico esce pure un vecchietto dal passo malfermo: è Mohamed al Muktar, 80 anni, il figlio del leone, che solo pochi mesi fa aveva giurato che non avrebbe mai messo piede il Italia.
Eccolo invece accomodarsi su una carrozzella mentre Gheddafi e Berlusconi si abbracciano, ascoltano gli onori militari e, sempre braccati dalle amazzoni, passano in rassegna le truppe schierate sulla pista di Ciampino. Il Colonnello tiene uno spadino con la mano destra e con la sinistra saluta un gruppo di libici sistemati dietro le transenne. Altre foto, poi Gheddafi si infila su una lunghissima limousine bianca e parte verso il Quirinale, attraversando una Roma svuotata e blindata. Arriva con gli occhiali da sole, con una sella di cammello in regalo e con mezz’ora di ritardo, niente per le sue abitudini, e viene accolto da Giorgio Napolitano nella Sala del Bronzino. Stretta di mano, breve colloquio e il pranzo di Stato. Il menu del Colle, in onore dell’ospite, prevede pappardelle di funghi impastate con il grano saraceno, dalla mitica Sarraz, la città della Cirenaica ricordata anche nel Parsifal come la terra degli infedeli. Poi spigola farcita con pomodorini e zucchine, patate al forno, torta gelato. Niente vino per Gheddafi, per carità, solo caraffe di aranciata. Napolitano invece beve Campanaro dei Feudi di San Gregorio, Chianti classico e per chiudere Malvasia.
Finisce con grandi dichiarazioni di amicizia. Gheddafi: «Salutiamo e ringraziamo questa generazione di italiani per aver risolto con grande coraggio le questioni del passato. E per il futuro ho un’idea per bloccare i pirati del mare». Napolitano: «Sulle questioni africane ho ascoltato parole di grande moderazione. Sul Medio Oriente ho ricordato la posizione italiana favorevole al riconoscimento delle ragioni delle due parti, palestinese e israeliana».
Nel pomeriggio, breve tappa a Villa Pamphilij, che per tre giorni sarà il suo quartier generale. Gheddafi dormirà nel seicentesco Casino Algardi e riceverà gli ospiti nella tenda beduina de-luxe montata nel giardino.

Sessanta metri quadrati, dodici poltrone con i piedi dorati, divanetti, tavoli stufe, lampade al neon, stoffe con palmizi e fiori, tappeti berberi, incensieri per ricreare un angolo di deserto. Sullo sfondo, incorniciata dai pini, la cupola di San Pietro. Oltre il muro, la Roma che in 2700 anni ne ha viste di tutti i colori, snobba il Colonnello e continua a fare jogging e a prendere il sole nel parco.

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