Alcune parole franche e responsabili di fine danno vanno dette a noi stessi, prima ancora di ascoltare il discorso certamente importante che questa sera, per doveri istituzionali, farà al Paese il Capo dello Stato.
LItalia, è vero, è in declino, ma il male peggiore sta in noi, che non abbiamo più fiducia e stima in noi stessi. È da qui che nasce linsicurezza e lincapacità di pensare ad un progetto che realizzi il risveglio nazionale. Siamo immersi in un pessimismo che ci sta svirilizzando. La sindrome che umilia il Paese, tenendolo in stato di confusione, di inerzia e infingardaggine, è la paura del domani. Sì, i peggiori nostri nemici siamo noi stessi.
Se vogliamo fare unanalisi obiettiva di questa patologia nazionale bisogna cominciare dagli strepiti, che ormai sono diventati corali, che vengono da ogni parte sociale e politica del Paese e ne fanno luogo di scompiglio e disordine, tanto da alterare ogni percezione e determinare assenza di lucidità e razionalità. Siamo, appunto, a quella «mucillagine sociale» denunciata efficacemente da De Rita, che nasce da una sorta di «malattia dellanima», una degenerazione interiore chè forse più grave di quella esterna visibile.
Eccola la maledizione dellItalia di oggi. Se prima non usciremo da questa condizione psicologica, e quindi anche culturale, che pervade il nostro interiore personale e tutta la collettività, è assai difficile immaginare e progettare prospettive per il nostro domani. È questo il dramma del periodo storico che stiamo vivendo.
Non sarà con lantipolitica che il Paese potrà imboccare la strada del risanamento e della necessaria moralizzazione. Così come sè manifestata in questi ultimi anni, lantipolitica è anchessa tra le cause dellumiliazione del Paese. I suoi declamatori sono in genere personaggi di scarso e, in taluni casi, di nessuno spessore culturale e persino etico. Non cè, non dico un Croce o un Bobbio tra essi, ma neppure un Ciceruacchio, quellAngelo Brunetti, certo illetterato, ma dotato di quel coraggio che gli fece affrontare il plotone di esecuzione austriaco nel 1849, sicché giustamente Roma gli ha dedicato una via e un monumento.
Che dei comici e dei satiristi mettano alla berlina e frustino la politica e il costume va benissimo. Guai se non ci fossero. Il linguaggio comico di Plauto, le sue farse, le sue allitterazioni furono salutari per la Roma antica. Ma altra cosa è che comici e satiri salgano in cattedra, muovano la piazza. Si può governare un Paese e farlo risorgere, comè urgente che avvenga, con ghigni, risi, parolacce e comiche?
Certo, oggi la debolezza della classe politica, certa sua mediocrità, sono palesi e insopportabili, ma pensare di sostituirla con masanielli senza arte né parte, spesso solo vogliosi di poggiare le natiche su uno scanno, è il peggio che si possa immaginare. Dal distacco crescente e preoccupante tra opinione pubblica e istituzioni si passerebbe a un guazzabuglio indecente, come mostra del resto già la presenza nel disordinato panorama italiano di sgangherati demagoghi.
Sarebbe ora che queste cose fossero dette, senza reticenze, da chi ha alte responsabilità politiche. Certi silenzi, taluni atteggiamenti di studiata cautela, sanno di irresponsabilità e, a volte, di viltà, diventano autoffesa della dignità istituzionale di una classe dirigente sulla quale incombe il dovere di guidare con forza, fierezza e nobiltà il riscatto di un Paese a rischio dissoluzione.
È venuto il momento di uscire dal limbo dellindeterminatezza e dellambiguità. Siamo alla pallacorda della nostra democrazia. Si tratta di decidere. Occorrono certamente nuove regole del gioco, la politica va riordinata, bisogna pensare a un nuovo patto costituzionale. Tempo da perdere non ce nè. Siamo alla linea Piave. È lo spirito di un nuovo risorgimento che bisogna ravvivare. Tutte le strutture istituzionali sono degradate.
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