Cronache

«Abbiamo trovato una comunità dove curare Paolo»

Roberto Calissano racconta suo fratello: «Non capiamo perché era depresso»

«Abbiamo trovato una comunità dove curare Paolo»

Fabrizio Graffione

Maglietta nera e maglione verde. Jeans e scarpe da ginnastica. I capelli arruffati e le borse sotto agli occhi ancora lucidi. Paolo Calissano esce così, in stato confusionale, da Marassi per rientrare nello speciale padiglione riservato ai detenuti al nosocomio del San Martino.
Ci ha parlato soltanto il suo avvocato Carlo Biondi. È in isolamento, ma non è isolato. La sua famiglia è compatta e schierata dalla sua parte. La mamma non ce la fa a parlare. È rinchiusa nel suo alloggio alla Rocca di Albaro, poco prima dell'attichetto dove sabato notte c'è stato il coca party. Distrutta dal dolore, lascia all'altro figlio, Roberto, un paio di anni più giovane di Paolo, il compito di raccontare.
«Siamo tutti insieme a Paolo - dice il fratello dell'attore, un marcantonio alto oltre un metro e novanta - dalla mamma, ora distrutta dal dolore, ai cugini, agli amici. In tanti mi hanno testimoniato la loro solidarietà. Appena posso lo racconto a Paolo che, purtroppo, non sono ancora riuscito a vedere. L'importante è che stia bene. Abbiamo pensato a tutto. Sono stati contattati alcuni amici professori che ci hanno indicato un loro collega, specialista nel recupero dei malati di depressione. È questo, infatti, il primo nemico da battere. Prima della cocaina. Naturalmente abbiamo anche pensato, di trasferire, appena possibile, Paolo, in un centro per disintossicarsi dalla cocaina. È tutto pronto, ne abbiamo individuato uno nel nord Italia. Si tratta di una casa di cura tra le migliori a livello nazionale».
«Voglio cambiare vita. Con la droga non voglio avere più nulla a che fare. Accetterò di sottopormi a qualsiasi trattamento terapeutico e intendo collaborare con gli investigatori. La depressione è la mia nemica numero uno e intendo sconfiggerla». Così avrebbe detto Paolo Calissano al suo legale, Carlo Biondi, durante l'uscita del carcere e il tentativo d'interrogatorio da parte dei magistrati genovesi, prima di essere rinchiuso nella camera blindata dell'ospedale San Martino.
«Mio fratello - continua Roberto - non è una persona cattiva, nè un balordo. Lo sanno tutti i genovesi che lo conoscono bene. Così come i suoi colleghi di lavoro. Anche chi è venuto a trovarlo a Genova e con i quali ci siamo incontrati diverse volte. Non dimentichiamo che ha prestato il servizio militare nelle fila dell'Arma dei carabineri. Un privilegio di cui è sempre stato fiero. Mia mamma ha ancora le nostre fotografie in salotto: lui in divisa nera con le stellette dell'Arma, io in grigioverde con il basco bordeaux dei paracadutisti. Paolo non è nemmeno uno stupido. Anzi, è un ragazzo intelligente. A modo, educato e gentile. Ha avuto un paio di incidenti stradali molto gravi. Uno gli ha provocato un forte trauma cranico e ne ha risentito parecchio. La perdita del nostro papà, una ventina di giorni fa, poi, lo ha fatto crollare. Era un triste evento annunciato da tempo, ma Paolo ha reagito davvero male. Era molto scosso e piangeva continuamente per il dolore».
Il successo, le belle donne, la celebrità. Qualcosa è andato storto negli ultimi anni.
«Non riusciamo ancora a capire i motivi della sua depressione, se non quelli dei traumi riportati dopo gli incidenti stradali. Forse lo stress del lavoro, di rimanere sempre e comunque sulla cresta dell'onda nel difficile mondo dello spettacolo. Aveva studiato a Boston e aveva conseguito il degree in economia e commercio. Poi la svolta con la televisione e quindi le produzioni cinematografiche. È partito da Genova facendo tutto da solo, senza aiuto, senza raccomandazioni, senza essere un figlio d'arte. Difficilissimo. Oltre alla bravura e alla prestanza fisica, anche una volontà di ferro. Speriamo che la ritiri fuori per uscire dal tunnel della depressione. Ce la farà. Lo ha già detto al suo avvocato. Vuole cambiare e tornare ad essere come prima.

Noi lo attendiamo a braccia aperte».

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