Roma Tutti nel Pd sanno che andrà comunque male. E nessuno, nel momento in cui il partito ha raggiunto una fragile tregua interna al gruppo dirigente, ha intenzione di utilizzare il risultato delle regionali d’Abruzzo come arma da brandire contro il segretario Walter Veltroni.
Così, il risultato elettorale di questo week end viene derubricato da tutti a semplice «test locale». Lo dice il capo dell’Organizzazione Beppe Fioroni: «Sono elezioni in una sola su 20 delle regioni italiane, e una delle più piccole: la competizione è comunque limitata». Ma lo dice anche Enrico Letta, uno dei critici della segreteria Veltroni: «In Abruzzo c’è una vicenda particolare, il partito è risalito dalle difficoltà in cui era e escludo che possa esserci un collegamento tra questo voto e il dibattito interno al Pd». E anche Massimo D’Alema, che l’altra sera ha chiuso a Teramo la campagna elettorale e ha toccato con mano, in una sala assai poco affollata visto il protagonista, le difficoltà del Pd locale, spiega che «l’Abruzzo non è un laboratorio, ma una regione importante che deve uscire da un momento difficile».
Il Pd, colpito dalle inchieste giudiziarie, dall’arresto di Del Turco e dalla caduta della sua Giunta, sa che rischia di lasciare sul tappeto una decina di punti rispetto ai precedenti risultati. E a cannibalizzarli sarà in buona parte Antonio Di Pietro, che al partito di Veltroni ha imposto il proprio candidato presidente e ha ordinato la rinuncia a mettere in lista molti dei suoi uomini più influenti, a cominciare dal capogruppo Donato Di Matteo, il più votato nelle primarie del partito con quasi 5mila preferenze.
Dell’Abruzzo Di Pietro ha fatto il suo laboratorio e la sua rampa di lancio, lo ha battuto palmo a palmo coi comizi e arringato ogni sera dalle tv locali, promuovendo il suo candidato Carlo Costantini, presentato come il simbolo della legalità, e appaiando nella condanna del «vecchio sistema di potere». La vittoria sarebbe solo sua, e gli consegnerebbe la guida «morale» del centrosinistra. La sconfitta verrà messa in conto agli alleati.
Tonino già mette le mani avanti: «Nel Pd c’è qualcuno che teme più la vittoria di Italia dei Valori che quella del centrodestra», insinua. E avverte: «Mai come in questa occasione faremo i conti dei voti e vedremo com’è andata». L’avvertimento non è casuale: Di Pietro replica alle voci che circolano in Abruzzo e rimbalzano a Roma, alle quali «mi rifiuto di credere», dice. Voci che la dicono lunga su sospetti e asti che regnano tra i due alleati: alcuni dirigenti locali del Pd starebbero dando indicazioni di voto disgiunto. Votare cioè la lista veltroniana, ma non il candidato presidente dipietrista, Carlo Costantini. Per punire l’ex Pm e le sue pretese.
Lo assicura ad esempio il dirigente del Prc abruzzese Maurizio Acerbo: «Sono notizie che ho anche io, purtroppo. Ci sono pezzi di ceto politico Pd che vedono il rinnovamento come la fine dell’occupazione del potere, remano contro e sperano evidentemente che si perda». Lo rileva anche il parlamentare Pd Pierluigi Mantini, abruzzese: «Che la risposta possa essere il voto disgiunto è voce corrente. Di Pietro ha fatto una campagna molto scorretta nei nostri confronti, totalmente mirata a far votare la sua lista e a presentare come solo suo il candidato presidente. Nel Pd regionale c’è un forte malessere, si sentono messi sotto i tacchi dall’ex Pm, che ha deciso anche i nostri candidati estromettendo chi non gli piaceva. E Roma ha accettato».
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