Negli anni Novanta i suoi rivali di Hamas scelsero la strada del terrorismo suicida. Due decenni dopo il presidente Mahmoud Abbas è pronto a sperimentare gli arditi sentieri della diplomazia kamikaze.
Inizierà tutto venerdì prossimo. Alle 12.30 Mahmoud Abbas, meglio conosciuto con il nome di guerra di Abu Mazen, si presenterà all’Assemblea delle Nazioni Unite e chiederà il riconoscimento dello Stato palestinese. Srotolare quella richiesta sarà come tirare il cordino di un giubbotto esplosivo. Con una differenza. Mentre l’atto del kamikaze è una scelta individuale, quella del presidente è una scelta collettiva capace di trascinare nel baratro un’intera nazione.
Per fermare quella richiesta Washington è pronta ad imporre il veto al Consiglio di Sicurezza e a tagliare i finanziamenti all’Autorità palestinese. La destra israeliana è invece decisa a chiedere l’immediata annessione delle colonie. Il risultato pratico sarebbe una Palestina a pezzi. Dopo aver regalato a Hamas la Striscia di Gaza il presidente Abbas è pronto a far i conti con un Cisgiordania mutilata. Una Cisgiordania dove i coloni potrebbero, in assenza di negoziati, annettersi gran parte degli insediamenti.
Nei territori rimasti sotto la giurisdizione dell’Autorità Palestinese il futuro non sarebbe molto più roseo. Senza gli aiuti economici di Washington, lo Stato di Mahmoud Abbas si ritroverebbe senza soldi per pagare impiegati pubblici, scuole, ministeri e apparati di sicurezza. Purtroppo per lui, e per i suoi cittadini, non farebbe neppure in tempo a finire sul lastrico. Senza la collaborazione dei servizi segreti e dal’esercito israeliano, sempre pronti a far pulizia delle cellule di Hamas in Cisgiordania, il presidente di Ramallah seguirebbe in poche settimane la stessa sorte dei suoi luogotenenti di Gaza. Si ritroverebbe cioè messo alla porta dai militanti fondamentalisti.
Abbas tutto questo lo sa. E non lo nasconde. «Da quando abbiamo deciso quel passo contro di noi si è scatenato l’inferno», sussurrava ieri prima d’imbarcarsi sull’aereo che lo porterà a New York. Eppure è pronto a seguire il proprio destino di shahid della politica. Al pari dei kamikaze decisi a tirarsi dietro un po’ di israeliani, ma consapevoli di non poter cambiare le sorti del conflitto, il presidente sembra pronto a immolare se stesso e il proprio popolo.
Perché lo fa? Non certo per eroismo. Per trent’anni ha fatto il passacarte di Arafat. Da sei recita il ruolo di suo grigio successore. Chi spera in un beau geste finale, epilogo di una vita non proprio ardimentosa, si rassereni. Tutto ciò non rientra nell’indole di Abu Mazen. Per il presidente laureato nella Mosca di Breznev e compagni la politica è innanzitutto calcolo. Accontentandosi del riconoscimento dell’Assemblea Generale garantirebbe alla Palestina una legittimazione quasi immediata ed uno status simile a quello del Vaticano. Ed eviterebbe, probabilmente, di far i conti con israeliani e americani.
Ma il presidente non s’accontenta, pretende un riconoscimento totale ed effettivo. Un riconoscimento garantito solo dal voto del Consiglio di Sicurezza. Il calcolo di Abbas non è - in questo caso - quello fanatico e spassionato dello shahid, bensì quello - freddo e cinico – dei suoi mandanti. Nella strategia di questi ultimi il kamikaze è solo un’arma utile per tenere aperta una contrapposizione di lunga durata. Abbas punta allo stesso obbiettivo. Per il riconoscimento esige quei tempi lunghi che solo la burocrazia del Consiglio di Sicurezza può garantire.
Solo così Washington si ritroverà impantanata e costretta a minacciare il veto.
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