Lo ammetto: sono un taxi-dipendente. Per me, il mondo esterno è lo spazio che separa la porta di casa da quella della preziosa auto bianca. Vivo a Roma, e per quanto anche altre città abbiano problemi di taxi, viaggio abbastanza per sapere che quelli della capitale sono maggiori. Sarà che la città è grande e antica, difficile da girare sia nel centro storico sia nelle periferie, ormai lontane quanto malservite. Sarà che i problemi del traffico non sono mai stati risolti, sarà che mancano le corsie preferenziali, sarà quel che volete, ma una cosa è certa: i taxi sono pochi. Da quando un povero disgraziato decide di chiamarne uno a quando finalmente può accomodarsi sull'ambito sedile, passano almeno dieci minuti, che più spesso diventano quindici o venti: perché o è l'ora di punta, o piove, o fa caldo, o c'è l'udienza del papa, o c'è una partita, o c'è (c'è sempre) una manifestazione in corso. I tre numeri più diffusi per le chiamate rappresentano per l'utente una cabala minacciosa e dal destino incerto. Uno, quello che ha più taxi - caratterizzato da una musichetta demenziale e ossessiva, che si ripete da almeno 11 anni - è anche quello specializzato in attese più lunghe, e non chiedetemi perché: di certo associo (ma credo di poter parlare per tutti gli «utenti») quella musica a una tortura iniqua, nel triplo senso di non equa, avversa e pessima: visto che ormai si chiama quasi sempre con il cellulare, alla fine la telefonata, ammesso abbia buon esito, costa più della corsa. Un altro numero risponde meravigliosamente quasi subito, ma per dirti - una volta su tre - che «non ci sono automobili nei paraggi», qualsiasi paraggio sia. Il terzo numero ti illude volentieri e abbastanza in fretta, salvo poi richiamare sul più bello per informarti che l'auto non è più disponibile: avrà trovato di meglio, chissà.
Quanto ai singoli tassisti, come in tutte le categorie c'è il bravo, il mediocre, il pessimo: ma poiché non c'è facoltà di scelta, è penoso a dir poco quando te ne capita uno - metà delle volte - scortese, o che non sa la strada, o che fa finta di non sapere quella migliore, o bestemmia a tempo pieno contro il traffico, l'amministrazione comunale e chiunque altro impugni un volante. Una maledizione frequentissima, poi, è la radio accesa «a palla», come dicono qui, cioè a tutto volume, su canali che trasmettono 24 ore al giorno le vicende della Roma e della Lazio, fin nel dettaglio più inutile: e guai a chiedere una moderazione del tono, perché il ciuccio di Totti viene a priori considerato un evento più nobile e importante di qualsiasi telefonata o lettura o riflessione o conversazione debba fare il cliente: il quale, prima che una fonte di introiti, viene fatto sentire come unindebita intrusione nella vita altrui.
Insomma, avranno anche ragione i tassisti a essere nervosi, ma non c'è dubbio che servono più taxi, e non solo a Roma.
Però la liberalizzazione improvvisa e selvaggia voluta dal governo Prodi era ingiusta e sbagliata: se ne dev'essere reso conto anche il suo autore, dopo avere giurato in tv che nessuna protesta sarebbe riuscita a farlo recedere. (Oltretutto il provvedimento sui taxi sapeva parecchio di una vendetta per le molte, troppe volte che la destra si è schierata a suon di megafoni contro ogni aumento delle licenze, per puri fini elettorali). Come dice il comunista Marco Rizzo, i tassisti non sono né notai né avvocati né farmacisti. Quello che guadagnano con un lavoro che dobbiamo riconoscere - nonostante tutto - durissimo, è legato alla proprietà della licenza, spesso comprata con sacrifici veri. Liberalizzare di colpo le licenze è come se a ognuno di noi si venisse a dire, all'improvviso, che la sua casa vale la metà.
L'accordo trovato ieri sera è un pasticcio che non risolverà niente: i tassisti hanno più che dimostrato di essere compatti, difficilmente dunque ognuno potrà lavorare quanto vuole, se gli altri non sono d'accordo. E poiché alla maggioranza degli esseri umani piace lavorare il meno possibile, tutto rimarrà come prima.
Occorre trovare un'altra soluzione. E allora perché non considerare quella proposta, già nel 2004, dall'Istituto Bruno Leoni? Si dia a ogni taxista una seconda licenza, gratuita e non trasferibile. Il «padroncino» potrà così assumere un altro taxista: in un colpo solo aumenterebbero sia le macchine a disposizione del pubblico sia i posti di lavoro. Quanto ai tassisti che non volessero approfittare di questa regale opportunità, peggio per loro. Vorrà dire che non sono adatti a svolgere quella che è, a tutti gli effetti, una libera professione. Un secondo effetto di una simile soluzione sarebbe, finalmente, dividere in due la categoria, che così com'è si muove come un sol uomo.
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