Roma - Eccolo qui in abito talare, inappuntabile come al solito, i corti capelli ricci che gli conferiscono l'aria eternamente sbarazzina di un collegiale in libera uscita, il sorriso suadente che manda in sollucchero le ragazzine e il passo marziale della star in continua ascesa. Che adesso affronta con coraggio un tema tabù come la pedofilia nell'ambiente ecclesiastico. Ma guai a parlargli di terreno minato, di gusto per la polemica, di voglia di affrontare la tigre. Stefano Accorsi con le lunghe mani nervose pare accennare a un fouetté mentre sottolinea con spirito i perché e i percome di una simile scelta. Che ci lascia sbalorditi, me lo consenta. Cosa può dirci in proposito?
«È molto semplice. Un anno fa a Parigi, la città in cui risiedo, vado a teatro attratto non dal testo rappresentato, ma dalla firma prestigiosa del regista Roman Polanski. E assisto a uno show sconcertante dove i piani del reale e l'immaginario fantastico si intersecano senza mai darci la certezza che ciò che vediamo corrisponda alla realtà vissuta dal personaggio. Ne esco insieme entusiasta e traumatizzato».
Tutto qui?
«Non le basta? Nel mio mestiere, che è il più bello del mondo, ci si tramuta in ladro, in gentleman, si indossano i panni del giudice e dell'assassino e via via ci si immedesima in tutte le tipologie dell'umanità ma mai, dico mai si incontra un personaggio come il protagonista del Dubbio».
Mi vuol dire chi è? Ardo dalla curiosità.
«È un giovane moderno, sportivo, diciamo pure bello. Che invece di imboccare la via maestra del successo in una professione borghese si dedica ai giovani nell'ambito del suo ministero: la Chiesa. Una scelta, quella del sacerdozio, che minaccia di perderlo».
Come mai?
«Già il titolo del testo dovrebbe metterla in guardia. Non a caso l'autore John Patrick Shanley ci introduce nel vivo della materia con quella parola, Il dubbio, posta in calce al suo copione. Il prete in questione, infatti, più che tacciato viene sospettato di pedofilia. A un punto tale che, alla fine di un processo a porte chiuse da parte della comunità religiosa, non sapremo mai se l'accusa corrisponde o no alla verità».
Non teme di suscitare la diffidenza della Chiesa con un tema simile?
«E perché mai? Il testo parla di dubbi, lo ripeto, e non di certezze. Semmai si interroga sul tema del peccato, sullo spartiacque tra il bene e il male, sul modo corretto di porsi in una società travagliata come la nostra. Tutti concetti, come si vede, al centro del dibattito spirituale».
Da undici anni non la si vedeva sul palcoscenico. Il cinema che l'ha consacrato a divo non gliene ha lasciato il tempo. Sia sincero: questo ritorno sarà solo episodico?
«Niente affatto. D'ora in poi voglio alternare al cinema il teatro almeno una volta l'anno. È una ginnastica che tonifica e purifica. Per un attore, è un bagno salutare confrontarsi ogni sera con lo spettatore e provare a se stesso che si è ancora in grado di sedurlo».
Per questo ha scelto di essere diretto da Sergio Castellitto, un altro attore di punta?
«Lei mi punge sul vivo. Il dubbio ha la struttura di un classico contemporaneo. Uno spaccato sociale dove si conduce una lotta senza quartiere per scacciare la tentazione e neutralizzare la colpa. Per annullare la distanza tra palco e platea dobbiamo essere tutti più veri del vero e solo uno come noi, un altro attore, può darci la forza di vincere una scommessa simile».
E il cinema? Cosa vedremo di Accorsi prossimamente sul grande schermo?
«In Francia ho appena finito di girare Baby blues, un incantevole girotondo di equivoci di Diane Bertrand che rinnova in modo preponderante i vecchi standard della commedia rosa. E ho altri copioni nel cassetto, naturalmente. Compreso un progetto che vi stupirà e sul quale, mi consenta, per ora sprofondo nel silenzio».
Non mi dica che la rivedremo nelle vesti di Amleto...
«Il principe di Danimarca è un luminoso traguardo, non una tappa.
E se ne va strizzando l'occhio. Inutile tentare di coglierlo in castagna. È il più grande comunicatore del mondo. Non mi stupirei se, prima o poi, si mettesse ad arringare le folle.
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