A volte ritornano, i rossi. Quando meno te lo aspetti, quando tutti pensavano che avessero mancato un’occasione irripetibile per rinascere o perlomeno per interrompere il declino. Quell’occasione si chiama crisi finanziaria. E sembrava quasi scontata al punto che all’inizio dell’anno, il Financial Times inserì tra i leader mondiali che avrebbero determinato l’esito della crisi finanziaria, anche Olivier Besancenot, ovvero il neomarxista che in Francia guida il Nuovo Partito Anticapitalista. Un tipo sveglio, mediatico e, naturalmente, populista; capace di attrarre e convogliare il malcontento delle masse durante la più grave recessione del dopoguerra. E con la disoccupazione in crescita, il successo dell’estrema sinistra sembrava quasi inevitabile, alla stregua di una reazione fisiologica: giù l’economia, su la sinistra, È andata così negli anni Ottanta, negli anni Novanta, ma nel Duemila? Nel Duemila no.
Si sbagliavano sia i politologi che il Financial Times. Da quando, nell’agosto del 2007, il mondo ha iniziato a patire la crisi dei subprime, esplosa nel settembre 2008, è stata la destra a vincere, perlomeno in Europa, a partire dalle elezioni locali fino a quelle per il Parlamento di Strasburgo, che hanno tinto d’azzurro la cartina della Ue.
La destra moderata, che negli ultimi anni ha temperato le vocazioni liberiste con la difesa dell’identità, delle tradizioni, del valore della famiglia, osservando con diffidenza le alchimie della finanza mondiale promosse da Wall Street. Nessuno ha potuto accusarla di essere corresponsabile, molti invece hanno elogiato la prontezza con cui ha affrontato le fasi più acute della tempesta, proponendo misure di sostegno ai cittadini e ai consumatori, più o meno efficaci, ma concrete, vicine alla gente.
Tutto il contrario della sinistra progressista, che a forza di imitare Blair, è diventata, non sempre consapevolmente, l’alfiere delle grandi banche internazionali, e che quando si è alzata la bufera non ha saputo cambiare passo. È rimasta immobile, inebetita, priva di valori alternativi, incapace di dirsi socialdemocratica né di indicare un nuovo orizzonte. Ed è crollata, diventando minoritaria in Germania, Italia, Gran Bretagna, Francia, resistendo solo in Spagna.
Un declino condiviso dalla sinistra radicale, prigioniera, a sua volta, di dogmi anacronistici o utopistici. Besancenot è rimasto dov’era; in Italia rifondaroli, neocomunisti e affini non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento in Parlamento; in Germania la Linke, nata dalla fusione tra l’ex Partito comunista della Germania dell’Est e il movimento alternativo di Oskar Lafontaine, fino a poche settimane fa sembrava addirittura in declino. Sì c’era stata la crisi, ma quel rimedio sembrava agli elettori europei peggiore del male.
Domenica scorsa, però, qualcosa è cambiato, proprio in Germania, nei tre länder dove si è votato e dove la Linke ha messo segno risultati spettacolari. Nella Saar è passata dal 2,3% al 21,3%, guadagnando addirittura 19 punti percentuali, mentre in Turingia ha ottenuto il 27,4%, contendendo il primato alla Cdu di Angela Merkel, crollata al 31,2% dal 43%. Nessuno, naturalmente lo aveva previsto, con le Borse in ripresa e un clima sociale senza dubbio più rilassato rispetto allo scorso inverno. La recessione c’è ed è pesante, ma fa meno paura. Eppure alcuni milioni di tedeschi hanno deciso di prestare ascolto a un partito che sa criticare molto efficacemente le storture del capitalismo, ma che non sa proporre un’alternativa, se non quella di uno statalismo che punisce l’imprenditoria, delega tutto allo Stato, propone di redistribuire la ricchezza senza sapere come crearla. Demagogia.
Le elezioni erano parziali, ma il segnale che emerge è allarmante, considerato che per la prima volta dal 2007 la sinistra massimalista ha ottenuto un’affermazione significativa. E l’analisi dei flussi politici della storia recente europea dimostra che raramente movimenti di questa ampiezza riguardano un solo Paese. Ci sono state ondate rosa, azzurre, spruzzi di destra populista (con Haider e Le Pen), bufere no global, risurrezioni identitarie, che hanno toccato simultaneamente più capitali europee.
E ora potremmo assistere a un revival rosso, perché la crisi tocca tutti, non solo i tedeschi; perché i colossi finanziari che hanno provocato il dissesto non hanno pagato per gli errori commessi e ora brillano come prima, suscitando indignazione; perché la disoccupazione salirà oltre il 10%, diffondendo povertà. E in un’Europa claudicante il rischio che il focolaio tedesco contagi altri Paesi potrebbe risultare più concreto di quanto si immagini.
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