Addio all’ultimo soldato Usa Sorge l’alba del nuovo Iraq

Cala il sipario sulla missione militare più controversa dell’ultimo decennio Ora la democrazia dovrà viaggiare sulle fragili gambe del popolo iracheno

Addio all’ultimo soldato Usa  Sorge l’alba del nuovo Iraq

Il 9 aprile 2003, giorno in cui la statua di Saddam Hussein cadde a faccia in giù in piazza Firdus, la «piazza del Paradiso», a Baghdad, noi c’eravamo. Assistemmo allo spettacolo dal «palco» della nostra camera d’albergo, su al tredicesimo piano dell’hotel Palestine, dove gli iracheni ci tenevano ristretti da un paio di settimane dopo averci catturati con l’accusa di spionaggio (il sottoscritto e altri sei colleghi) a Bassora, nel sud.

Un’ora prima che i Chinook prendessero a volteggiare sul Tigri, e i marines si attestassero sui ponti del centro cittadino, i nostri carcerieri si erano squagliati. Eravamo dunque lì, nuovamente liberi, in piazza, fra l’ottantina di ragazzotti scamiciati che celebravano l’evento sbracciandosi ed esibendosi davanti alle telecamere. Un’ottantina? Ma sì, diciamo cento. E il resto? E «il popolo iracheno» che nei titoli dei Tg e dei giornali del mondo intero festeggiava con «scene di giubilo» i liberatori? Semplicemente non c’era. Era chiuso in casa. Non festeggiava. Non agitava bandierine. Non salutava i liberatori. Non si fidava.

In piazza c’era solo una turba di ragazzotti usciti dai maleodoranti vicoli della sciita Saddam (poi Sadr)city. Una ola da stadio e nulla più. Così imponente era il mancato colpo d’occhio che ci affannammo -lo fece ciascuno dei cronisti presenti alla scena- chiamando i nostri rispettivi giornali per avvertirli dell’equivoco. Ma le scene riprese dalla Tv in campo ristretto (la «parte per il tutto») ebbero la meglio, come sempre. Fu dunque, perché così si voleva che fosse, il trionfo dei liberatori.

Ieri, su tutta quella storia che solo agli americani è costata 4500 morti, è calato il sipario. Via di notte, senza fanfara e sventolar di bandiere. Così, poco prima dell’alba di domenica, gli ultimi soldati statunitensi ancora di stanza fra il Tigri e l’Eufrate (resteranno i marines a guardia dell’ambasciata) hanno lasciato l’Irak diretti in Kuwait. Si chiude così, quasi nove anni dopo, una storia di cui solo il presidente degli Stati Uniti e il suo segretario alla Difesa, Leon Panetta, per onor di bandiera, possono dirsi «orgogliosi».

Venuti «per sconfiggere la tirannia e portare la democrazia», per usare le parole di Panetta, gli Usa lasciano l’Irak nel migliore dei peggiori modi possibili: lacerato tra le molte milizie che si contendono le spoglie di un potere nominalmente in mano sciita, e squassato dalle bombe che ogni mese mietono ancora centinaia di vittime, dove solo i pozzi di petrolio, che pompano a pieni turiboli, sono esenti dall’instabilità che impiomba il Paese. Eppure, se si guarda agli avvenimenti con l’occhio rivolto al tempo in cui la comunità internazionale era scesa baldanzosamente al fianco di George W. Bush, sarebbe ingeneroso parlare di sconfitta per gli Stati Uniti. Il tiranno e il suo regime in fondo sono stati abbattuti.

Una parvenza di democrazia si è riusciti a metterla in piedi, e in fondo, date le premesse, forse non era possibile aspettarsi di più. E tuttavia, parlare di successo, è quantomeno azzardato.

La guerra a Saddam era nata nella mente di Bush junior, e della sua potente lobby neocon, come ritorsione per l’attentato dell’11 settembre 2001. Si fece credere al mondo (senza mai fornirgli una prova che fosse una, e senza neppure trovarne, per quanto ci si accanisse) che il regime di Saddam nascondeva un arsenale di armi di distruzione di massa e che, di nascosto, se l’intendeva con i terroristi di Osama Bin Laden. Si spazzò via la classe dirigente sunnita filo Saddam per favorire quella sciita, integralista e filo iraniana, che oggi è al potere, col risultato di innalzare spaventosamente il grado di inimicizia del mondo arabo e rafforzare indirettamente quello stesso Iran che popola gli incubi dell’Occidente col suo programma nucleare.

Alla voce «bilancio», oltre ai 4500 morti americani bisognerà aggiungere i 32 mila feriti, i mille miliardi di dollari (solo per il periodo 2003-2010) scaricati sul groppone del contribuente americano, e gli altri mille che, si calcola, serviranno per le cure e la riabilitazione dei reduci.

Sulle immense perdite degli iracheni nessuno sa nulla, ovviamente. Ma la democrazia (di cui nessuno in Irak sentiva una particolare esigenza) ha i suoi costi. E come diceva Napoleone Bonaparte «noi non facciamo la conta dei cadaveri».

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