Addio all'ultimo tabù ora la morte si fa bella

Le polemiche sull'eutansia. Dopo secoli di pudore e rifiuto il dibattito pubblico sulla fine della vita si è improvvisamente rovesciato Ora c’è silenzio su chi sceglie di andare avanti e solidarietà verso chi annuncia che preferisce andarsene 

Addio all'ultimo tabù 
ora la morte si fa bella

Ma è possibile che l’umanità e la dignità della persona, e persino l’amore, si siano rifugiati nell’eutanasia? Leggo ogni giorno dichiarazioni e articoli pieni di umanità e d’amore dedicati a persone che decidono di morire o aiutano a morire.

Il caso Crisafulli, il caso Gosling, il caso Purdy, il caso Ewert, perfino l’anniversario del caso Englaro, del caso Welby e centinaia di altri casi. Più partecipi si fanno poi i racconti se i morenti e i loro aiutanti sono omosessuali, come se l’amore più puro fosse quello che non può procreare, cioè dar vita. L’atto supremo d’amore è considerato dar la morte al proprio partner malato.

Non leggo mai elogi a chi decide di vivere nonostante le condizioni estreme di vita o a chi procrea pur con una gravidanza a rischio mortale; solo elogi e comprensione a chi decide per la morte. Vedo poi una serie di film e interi scaffali in libreria dedicati al libero morire, al testamento biologico, al suicidio. Quasi tutti orientati in favore dell’eutanasia. È impressionante notare come il tabù della morte su cui è fondata la nostra epoca, ovvero la scomparsa del morire dai nostri orizzonti, il tacere, eludere, rimuovere la sua rappresentazione e perfino la parola, si sia d’un tratto rovesciato in un diffuso accanimento mortuario.

A ben vedere, però, si tratta di uno slittamento di senso perché il nodo naturale e soprannaturale del morire cade in secondo piano rispetto alla nostra libertà di decidere e di recidere il legame con la vita. Non dunque una cogitatio mortis, un pensare la morte, ma una rivendicazione della nostra sovranità sul morire. Sul tema non riesco ad avere opinioni nette e chiare, e non invidio coloro che le nutrono perché in quell’incertezza colgo il segno della condizione umana. Riesco solo a distinguere tra la sfera pubblica, comunitaria, e la sfera, non dirò privata, ma interiore, intima, personale.

Per la prima continuo a pensare che compito di un medico, di un ospedale, della legge e dell’autorità, della società e delle sue agenzie civili e religiose, sia quello di essere dalla parte della vita. E dunque di proporsi comunque di salvaguardarla, di scommettere sulla vita fino in fondo; evitando certo lo strazio dell’accanimento terapeutico ma tutelando quel fil di vita fino a che è possibile. E dunque reputo l’eutanasia a norma di legge un pericoloso cedimento allo spirito di morte che aleggia nella nostra società e fa il paio con la denatalità, gli amori sterili e la disperata opulenza.

Il suicidio dell’occidente di cui scriveva James Burnham mezzo secolo fa diventa orizzonte comune ad altezza di singolo. I confini dell’eutanasia sono poi incerti e insidiosi; a volte si citano casi estremi per far passare gradualmente l’idea che sia possibile liberarsi di vite malate o semplicemente stanche, di rami secchi e di pesi morti, che magari possono essere utili magazzini di ricambi per trapianti d’organi vitali. Un po’ quel che avviene nel girone inverso con l’aborto. Insomma, forme larvate di suicidio.

Invece è bene ricordare, prima della cristianità, la concezione pagana della vita come milizia, che fu di Cicerone; cioè l’idea che non si possa disertare, perché la vita non è solo nostra e ai suoi confini estremi non ci appartiene: ci fu data, ci sarà tolta. Amor fati, amate il vostro destino. Ai giovani tentati dal suicidio esorto all’avventura, al rischio in proprio, non a spese altrui, s’intende: giocatevi la vita più che buttarla via. Però se passo dal piano pubblico della civiltà al piano personale e interiore, allora il discorso assume altre prospettive.

È in gioco la dignità del vivere e del morire, il nostro umanissimo desiderio di non trascinarci come ombre di noi stessi e larve d’uomini, di non soffrire e di non far soffrire. Ti risalgono nella memoria e negli occhi il gesto o le ultime parole di una Cara Morente che ti chiedeva di essere portata a casa e poi fa il segno con l’indice e il medio di una forbice, come a tagliar la spina. Ti risalgono le parole di un Vecchio malato che si chiama la morte ogni giorno, pur avendone terrore, e ripete: che senso ha vivere ancora così malandato e vecchio. E tu ti vergogni nel primo caso se non hai il coraggio di assecondarla e ti attacchi invece a quel fil di vita; o nel secondo ti vergogni quasi a sperare, anche se lo ami quasi più di te stesso, che il vento se lo porti via e assecondi il suo desiderio di partire. Perché quello è il desiderio che coltivi anche per te stesso, di non trascinarti quando la vita diventa solo l’ombra del morire.

E allora, nei casi estremi, è possibile assumere sul piano personale una decisione tragica, ma senza pretendere il conforto della legge e della religione e il consenso della società e delle istituzioni. Ti assumi tutte le responsabilità della scelta e le conseguenze; un giudice rigoroso e misericordioso ti condannerà anche simbolicamente, sancirà un verdetto e un principio ma non pretenderà di aggiungere pena a dolore. Sul piano personale arrivi perfino a capire l’uso antico in certe popolazioni dei vecchi che si allontanavano dalla comunità per lasciarsi morire in disparte e riprendi un’idea fatalista che allarga a dismisura i confini dell’accanimento terapeutico. Poi però torni nella sfera pubblica, leggi tutti quei discorsi in favore del morire e ricordi quel piccolo, forse indecifrato, episodio accaduto giorni fa a Salvatore Crisafulli, da sette anni ridotto in condizioni quasi vegetative, ma con residua lucidità. Gli avevano chiesto di chiudere le palpebre se desiderava vivere e di tenerli aperti se invece, come sembrava, desiderava morire.

Mi era parsa un’inversione rituale, quella richiesta: sarebbe più giusto che chi vuol vivere tenga gli occhi aperti, chi vuol morire li chiuda. Poi però mi sono ricordato dell’Imperatore Adriano che voleva entrare nella morte ad occhi aperti e allora ho capito che forse era più giusto il contrario, chiudere gli occhi per continuare a vivere. E lui, Salvatore, li ha chiusi, come a offrirsi ciecamente alla sorte e alla vita.

Che volete, provo più tenerezza e trovo più amore in quel battito di ciglia in favore della vita, piuttosto che in quel cuscino con cui

Gosling ha soffocato il suo compagno malato per non farlo più soffrire. Umani entrambi, per carità, e meritevoli di pietas ambedue; ma nel primo c’è forse una piccola traccia di divino, nascosta in un alito di vita ulteriore.

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