Addio a Bertolani poeta ligure di rime «pietrose»

Paolo Bertolani era nato alla Serra di Lerici nel 1931. Lì era cresciuto e aveva costruito intorno a sé il suo mondo. Non si era fatto intimorire dalla tradizione che avevano inaugurato nella sua baia, la «divina baia», poeti romantici come Shelley e Byron. Lui era un uomo di alture, non di mare. Di quelle alture su cui avevano lasciato le loro orme Dante e Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Uomini da rime «pietrose» Aveva certo letto il Montale degli Ossi di seppia, ma ancora di più Sereni, forse Fortini, che passavano l’estate a Bocca di Magra.
Il suo era un mondo intriso di una eticità forte, un mondo aspro e dolce, dove il fiele e il miele della vita si scontrano, dove l’elegia si avvicina all’invettiva, dove il quotidiano mostra il suo retroterra di mistero. Si era creato un linguaggio unico. Le sue poesie più belle sono scritte infatti nel dialetto della Serra di Lerici, che assomiglia poco al genovese di Edoardo Firpo, non ha nulla della cantilena dolce con cui si parla a Ponente, e si distanzia dallo stesso spezzino per una sua sonorità più ispida e irta di dissonanze e dissolvenze. Quando ho letto Bertolani la prima volta, ho pensato al provenzale, al catalano. A conoscerlo di persona, Paolo Bertolani colpiva per la sua voce modulata, con cui recitava meravigliosamente i suoi testi, e per la sua affettuosità naturale, semplice, fraterna, in cui si mescolavano bene gentilezza e amore della poesia.
Aveva esordito con un volume in lingua, Incertezze dei bersagli,(1977), a cui va affiancato, sempre in lingua, un felice libro di prosa intitolato Racconto della contea di Levante, (1979), che aveva vinto il Premio Comisso. Poi, aveva prevalso la fedeltà al suo dialetto in fieri, così originale e così pieno di sempre nuove possibilità. L’uso di uno strumento così particolare non l’aveva confinato in spazi ristretti. L’ispirazione di Bertolani tendeva piuttosto a vedere nei dati di una esperienza comune le trame essenziali della vita e della morte. Fu amico di Mario Spagnol, il grande editore, lericino come lui, uomo di mare e di orizzonti cosmopoliti. Con lui divenne coautore di una fiaba La grande settimana (1999), che mescola in maniera struggente avventura, humour, esperienza, fantasia. Fu proprio per la Guanda rilanciata da Spagnol che mi occupai di editare un bellissimo libro di Bertolani, ’E gòse,l’aia (Le cose, l’aria, 1988).

La poesia che dà il titolo al libro comincia con versi che in italiano suonerebbero così: «Se le voci dei morti, come dicono, / restano eterne intatte nell’aria, / e nessuno le può più cancellare... ». Oggi sono le parole di Paolo Bertolani che aleggiano intatte nell’aria, mentre lui lascia leggero Lerici e le sue colline.

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