Cesare G. Romana
La voce era purissima, provvista di tutte le doti che madre natura può elargire a un’ugola: estesa, duttile, incline in egual misura all’acciaio, al cristallo e al velluto. Se non riuscì, con quella voce, ad entrare nel mito, fu perché spuntò un’altra donna, che aveva le stesse qualità ma poi una in più, il genio. Ed era Mina.
Così Betty Curtis dovette accontentarsi d’un successo certo amplissimo, ma transitorio. Fu a causa d’un destino sgarbato, ma non iniquo: ché se Mina era la Callas del pop (voce più genio, un mix che ne nasce uno ogni secolo), lei era, del pop, la Freni o la Kabaivanska: bravissima, poliedrica, trascinante. Ma il genio?
E tuttavia sarebbe ingeneroso relegare Betty Curtis, all’anagrafe Roberta Corti, classe ’36, nell’angusta categoria degli «urlatori», della quale fu proclamata regina e nella quale trovarono provvisorio alloggio anche giganti degni di ben altri allori: Modugno, Celentano, Mina medesima. «Io non urlo, io canto», mi disse asciutta, un giorno che le rammentai quella qualifica, che coglieva un solo aspetto, e laterale, del suo stile. Aveva ragione: le appartennero il frizzante vitalismo dello yé yé ma anche l’irruenza selvatica del rock’n’roll, perfino la melodia ampia, romantica, italiana. Che Betty sapeva, tra l’altro, «ringiovanire» depurandola dagli eccessi di melassa e dai sedimenti melodrammatici.
Lo dimostrò a Sanremo, nel ’61, vincendo con Al di là, brano di Donida e Mogol non proprio d’avanguardia: «Al di là del bene più prezioso/ ci sei tu/ al di là del sogno più ambizioso/ ci sei tu», diceva e lei - contagiando in ciò anche Luciano Tajoli, suo co-interprete - lo riscattò dissolvendone la retorica con un’interpretazione fresca, squillante, «giovane».
Sarebbe stata un’ottima cantante di rhythm and blues e magari di rock, se fosse vissuta in un’altra temperie. Se non si fosse trovata compressa tra gli ultimi fuochi del cosiddetto stile «all’italiana» e l’avvio del cantautorato, che la canzone la svecchiò davvero, ma con altri criteri. Betty Curtis si pose sul discrimine, mediando con grande sagacia fra tradizione e modernità. È comune, del resto, alle grandi signore della canzone, questa mediazione tra generi estranea all’egocentrismo maschile: Patty Pravo parte dal beat e approda a Lou Reed e Ferré, la Vanoni da Strehler arriva a Paoli, Vinicius e perfino Gil Evans, Milva dal Mare nel cassetto perviene a Brecht e a Berio. Con scarti meno acrobatici, Betty Curtis seppe comunque conciliare valori di sempre con l’impazienza dei giovani. E questo anche se fu quello sanremese, il suo palcoscenico preferito: lo frequentò dal ’59 al ’67, cantandovi con Wilma De Angelis Nessuno, poi rilanciata da Mina, con Villa e Latilla Una marcia in fa, con Dorelli Amore senza sole, di Mascheroni, e ancora Buongiorno amore, dello stesso Dorelli, Il cielo cammina, con Tajoli, Invece no, con Petula Clark, È più forte di me, con Tony Del Monaco. Oltre s’intende a Al di là, con la quale lei e Tajoli sbaragliarono Celentano, Sergio Bruni, Dallara, Milva, Mina, Paoli e perfino Claudio Villa nonché Teddy Reno, che di Betty era stato lo scopritore.
Ebbe buon fiuto, Teddy: nel ’59 la sua protetta era già una star, e del resto la nativa intelligenza le consentì di andare oltre i recinti della canzoncina usa e getta, misurandosi vittoriosamente con pagine di ben più evidente spessore: ricordiamola in Chariot, clamoroso successo, e ancora in Guantanamera, La pioggia cadrà, Cantando con le lacrime agli occhi, Aiutami a piangere, temperamentosa e vocalmente impeccabile. Perché erano tempi strani, quelli: per cantare bisognava, tra l’altro, saper cantare.
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